Già dal suo primo film (un impresa un pò alla Pasolini, passare dalla scrittura alla macchina da presa senza nessuna, o quasi, esperienza in materia) la Breillat non fà sconti, sbatte in faccia al povero spettatore (che magari si aspettava le solite pruderie morbosette adolescenziali, visto anche il titolo italiano alla Alfonso Brescia) i suoi temi prediletti (poi ampliati nei film a venire) senza troppi peli sulla lingua, immergendo il tutto in un afosa estate che puzza letteralmente di necrosi, indugiando sui liquami corporali femminili, sui piaceri della carne che vanno a braccetto con la putrefazione, sugli odori rancidi del sesso e i suoi derivati, sugli incubi sessuali di una ragazzina che stà germogliando al tropico del sesso.
Una coppia di genitori sopra le righe, bellimbusti tamarri, Alice (nel paese delle mostruose meraviglie) che si dibatte tra il suo corpo in via di mutazione cronenberghiana, pulsioni zoofile (il cane che annusa eccitato le mutandine di Alice appena tolte, Alice che si fa leccare sulla bocca) e incestuose (il papà che le palpeggia il seno, Alice che immagina il pene del padre che fuoriesce, disgustosamente, dalla patta dei pantaloni), pronta a infilarsi oggetti nel sedere (una bottiglia, una piuma), provocando a destra e a manca, girando in bici anticipando la
Monella brassiana, camminando con le mutandine calate, scrivendo sullo specchio (e torna il riferimento a Lewis Carroll) il suo nome con gli umori vaginali, facendo scrosciare tanta pipì dalle cosce, beandosi del caldo e dell'odore acidulo del suo vomito sulla camicetta da notte, togliendosi il cerume dalle orecchie per spalmarlo sulla tovaglia, infilandosi il cucchiaino proprio lì, mentre fa merenda con i suoi genitori, a gambe larghe sulle rotaie del treno mentre colano gli appiccicosi umori vaginali che lei paragona alle viscere calde e viscide del pollo estirpate dalla madre con gusto lievemente sadico.
Chi conosce il cinema della Breillat sa che la signora non le manda a dire, e il suo è un cinema prettamente personale, viscerale e intimista, che disgusta con grazia, che fa della sgradevolezza virtù, che eros e thanatos vanno a braccetto in mezzo a odori e sapori carnali spesso aspri, che invadono lo schermo, alla scoperta del proprio corpo e tutto quello che esso contiene e che ben prima di Lars von Trier non ha reticenze a mostrare i genitali in primo piano, che invadono grottescamente lo schermo.
Canzonette in tv e alla radio scandiscono l'estate cupa e tormentosa di Alice, tra il bighellonare del dolce far niente per tutto il giorno, alle squallide feste di paese, in una casetta in campagna tanto angusta quanto disadorna, tra miriadi di mosche (alcune intrappolate nella marmellata servita per merenda), caldo soffocante e fantasie torbide e appicicattice di una tredicenne.
La morte sempre ad un passo dall'impellente bisogno sessuale di Alice (la carcassa del cane sulla spiaggia, il pollo sgozzato che manco nei mondo movie, la gallina che becca un topo morto, il finale tanto beffardo quanto cinico), i riferimenti a
Storia dell'occhio di Georges Bataille (l'uovo appena covato rotto nella mano, con l'albume e il tuorlo che scivolano nella mano di Alice), i close up sulla sua vagina dischiusa, sui grotteschi e mostruosi peni barzotti, su mani inzozzate di sperma, su lombrichi fatti a pezzi sul pube che diventano pre yuzniane oscenità (la penetrazione con la coda del verme), a stati onirici paraferreriani, con Alice che gattona per la spiaggia con una piuma infilata nel sedere credendo di essere un pennuto, al padre che si diverte con una donnina di facili costumi (e che indossa un paio di sandaletti con il tacco da usare "pause still" per entrare nello schermo e impossessarsene), alla madre che perde sempre di più il contatto con la realtà, appicando incendi e facendo scenate patetiche.
Notevole come la Breillat stia addosso alla Alexandra, esaminandola, scrutandola nel suo intimo (quando si veste da "puttana" davanti allo specchio o ammira il suo corpo un pò per volta , perchè non ama vedersi nuda completa e non riesce a coniugare il suo viso con il suo sesso-mi veniva in mente la canzone di Claudio Baglioni
Ragazza di campagna-), andando sempre più a fondo, carpendole ogni sfaccettatura della sua più segreta intimità.
L'inizio del cammino breillatiano che si evolverà con
Vergine taglia 36,
A mia sorella fino ad arrivare al suo capolavoro con
Pornocrazia, che seppur imperfetto e non esente da qualche pecca dettata dall'opera prima (situazioni ripetitive, qualche forzatura intellettuale nei pensieri di Alice, la canzone in televisione che dura troppo, le mire alla falegnameria dove lavora Jim sinceramente monotone), vibra di spudorata e spegiudicata sincerità e di un realismo (il corpo e i suoi derivati) difficilmente riscontrabile nel cinema dell'epoca che associa il cinema della Breillat con quello di David Cronenberg (anche se su lati diametralmente opposti), e al coraggio della regista francese di sfidare la censura (che ne pagherà dazio con il congelamento del film per ben 23 anni) e di non assomigliare a nessun altro film del periodo (forse le si avvicina il Serge Gainsbourg di
Je t'aime moi non plus, per l'atmosfera zozza, putrida, afosa e soffocante).
E nel film i congiungimenti sessuali stanno a zero (se non il papà di Alice, l'unico che ha un vero rapporto completo), dicendola lunga sull'antierotismo e sulla negazione del piacere tanto caro alla regista di
Romance, quasi e solo esclusivamente interessata al corpo di Alice e alle sue mutazioni (e ai suoi umori).
Ovviamente astenersi anime candide e chi cerca pruriginosità a buon mercato. Per chi (come il sottoscritto) adora liquami femminili di ogni sorta (la Alexandra c'ha pure, in aggiunta, i piedini sporchi) e il cinema di questa ruvida e spinosa autrice, il must è servito (anche se pecca di qualche forzatura quà e là).
Da confrontare con i patinatismi innocui di
Melissa P.