L'opera più significativa del periodo "neorealista" di Bunuel: la descrizione della vita, violenta, vera e disperata, di tre ragazzi di strada. Uno di essi, Pedro, nell'indifferenza della madre (straziante l'unico inserto surrealista della pellicola, il sogno in cui tutti i desideri repressi del ragazzo si manifestano) tenta inutilmente di "divenire buono". Sembra la realizzazione della pessimistica concezione della "lotta per la vita" Verghiana, in cui nessuno trionfa (se non nella dimensione onirica). Ottimi gli attori.
Incursione neorealista di Bunuel col film che dopo anni lo trasse fuori dal ghetto degli "Olvidaos" del cinema. Con l'umiltà degli originali e dei geni sinceri Don Luis costruisce una sorta di Sciuscià messicano, sovrapponendo però all'umanitarismo del capolavoro di De Sica il suo cinismo da irrimediabile scettico: Jaibo e Pedro sono due facce della stessa medaglia: la fame che condanna e non redime, ma tutti i personaggi sono in realtà ripresi senza pietismo e concessioni ai facili clichè (vedi le figure del cieco e della Madre).
Opera che fa parte del periodo neorealista-messicano di Bunuel, è un duro ritratto di una vita ai margini sin dall'infanzia, fatta di mortificazioni e delinquenze assortite. Ciò che più impressiona è la mancanza di moralità di tutti i personaggi, che rende il tutto più opprimente e drammatico perché senza alcuna possibilità di redenzione. E quando Pedro sogna si materializza uno degli incubi più potenti impressi su celluloide.
Il dolore di esistenze “dimenticate”, ai margini, succubi di un destino già segnato e atroce. A tutti gli effetti lo Sciuscià messicano, ma se De Sica raccontava i suoi ragazzi con amore e compassione lasciando una carezza, Bunuel ci scaraventa addosso tutto il degrado, la disillusione e la spietatezza di una società che non si aiuta, cinica e amorale. E al realismo del contesto si utilizza la deriva onirica come evasione ed illusione. Un’opera al di fuori della civiltà e all’interno di un limbo sospeso tra desolazione e morte. Straordinario.
Il surrealista Buñuel incontra il neorealismo e ne esce una visione cruda, disperata e misteriosa dell’inferno urbano in cui si dibattono i ragazzini dimenticati dalla società: randagi microcriminali, che soffocano la sensibilità infantile con una violenza e un cinismo spietati, senza far intravedere alcuna luce. Notevoli le immagini, che calano la lezione del cinema di De Sica nel rovente e funebre contesto dei sobborghi messicani. E ogni tanto fanno breccia squarci onirici e rimandi simbolici che elevano il documento ad accorata elegia.
Ragazzi figli di nessuno che conoscono solo la violenza, unico modo d' essere, in una squallida baraccopoli di Città del Messico. Buñuel racconta senza filtri la gioventù senza speranze, vittima essa stessa di abusi e sfruttamento, in cui anche i sogni sembrano deturpati. Jaibo e Pedro sono le facce di una stessa medaglia la cui disperazione ha la stessa matrice: l'assenza di amore. Premiato nel 1951 al Festival di Cannes come migliore regia.
MEMORABILE: La vaga somiglianza di Jaibo con Salvador Dalì.
Punta del neorealismo in chiave buñueliana, che sarà poi chiara ispirazione per la prima fase dell'opera di Pasolini. Se le influenze italiane si sentono nei volti già vissuti dei ragazzini (geniale la prima inquadratura frontale del "toro"), nelle ambientazioni povere e in una lingua popolare dalle mille sfumature, il tocco del regista spagnolo emerge e brilla durante gli inquietanti e meravigliosi incubi, sospesi tra l'horror e il fantastico. Un film fondamentale, che apre domande che non possiamo davvero considerare chiuse e allo stesso tempo ammalia di magia cinematografica.
MEMORABILE: Tra tutte le scene, l'incubo da brividi durante la morte finale: "Míralo Jaibo! El perro sarnoso! Míralo! Ahí viene."
Non "figli della violenza", destinati a perdersi per l'ereditarietà delle colpe di matrice cristiana, ma "dimenticati" come recita il titolo originale: ragazzi senza famiglia come El Jaibo , abbandonati dal padre ad un angolo di strada come Ojinto oppure respinti da una madre che non li ama come Pedro. Lo Sciuscià messicano di Bunuel ritrae un mondo di miseria cupo, cattivo come il cieco querulo e rabbioso che anticipa quello in Viridiana, in cui non c'è posto per la pietà come dimostra il finale, raggelante perché l'ultimo oltraggio avviene per mano del personaggio più gentile.
MEMORABILE: L'omicidio a bastonate fuori dal cantiere; Il corpo sul mulo e poi gettato tra i rifiuti.
Gruppo di ragazzini si barcamena tra il nullafacente e la criminalità. Affresco neorealista messicano concentrato sui ragazzi di strada in cui gli adulti vengono additati per le loro responsabilità. Buñuel non insiste sulla malvagità e instilla sprazzi di umanità (il direttore del carcere, il cieco nella fase iniziale); anche i piccoli inseriti onirici richiamano un bisogno d'amore. Regia fluida che sfrutta le espressioni dei giovani bistrattati, a volte spauriti. Il giudizio sul sistema governativo non viene enfatizzato.
MEMORABILE: Il finto braccio ferito; Il lavoro al luna park; Il cieco che importuna la ragazzina.
Los Olvidados, ovvero "i dimenticati". Ragazzini dimenticati dalla famiglia, certo, ma anche dallo Stato, che l'unica possibilità che offre loro è il riformatorio, dal quale spesso escono ancora più violenti. Un film doloroso, straziante, che punta il dito direttamente verso lo spettatore, e non è un caso che sia stato osteggiato in tutti i modi alla sua uscita, soprattutto da coloro che si propone di rappresentare. La miseria rende prevaricatori, impietosi, cattivi. L'occhio di Buñuel non risparmia nessuno e confeziona un immenso capolavoro.
MEMORABILE: L'accerchiamento del cieco; Lo storpio sulla carretta a rotelle; Il tragico finale.
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