Non me ne vogliano i fan di Ben Wheatley, ma dopo l'ottimo
Kill list (la quintessenza del folk-horror dopo
The wicker man) questo suo strampalato viaggio-lisergico-esoterico proprio non sono riuscito a digerirlo.
Nulla da recriminare sull'evocativa messa in scena (suggestiva e meravigliosa la fotografia in bianco e nero di Laurie Rose, possente la OST ritmica e a tratti tribale) con qualche attimo di grande potenza visionaria (l'uscita dalla tenda, tenuto dalla corda, con il ghigno satanico stampato sulla faccia, le pittoriche pose alla Derek Jarman), che per alcuni versi ricorda certo cinema di Peter Watkins ( e, in tono minore, di Terry Gilliam).
Un'unica unità di luogo (un campo ostile che sembra non finire mai), peni barzotti con qualche pustola (la sgradevole visita andrologica), innaffiate d'urina, dolorose defecazioni sulle ortiche (sul filo trash scatologico alla Nando Cicero), una marea di chiacchiere e dialoghi che rasentano spesso la noia (come succedeva nel
Faust di Sokurov), facce che esplodono letteralmente, grida disumane sotto la tenda, grandi ( o piccoli) "inquisitori" in odor di zolfo, dita amputate, pistolettate e boati di cannone, funghi allucinogeni trangugiati che manco
Shrooms, tiri alla fune, specchi scuri spezzati a metà e morti che ritonano in vita così, tanto per...(stai a vedere che il campo c'ha le occulte doti "lazzariane" dei terreni K o del cimitero dei Mic Mac).
E tra pianeti neri che vengono direttamente da
Melancholia, pseudo sotto jodorowskyate da western oppiaceo alla stregua di
El topo, look da tortilla/tomasmiliana che nemmeno
O'Cangaceiro, i soliti trip da mal di testa modello
2001, alchimie da il diavolo probabilmente e duelli leoniani sotto anfetamina, ecco che Wheatley perde del tutto il (buon) senso di quello che racconta, compiacendosi e crogiolandosi nella più asfittica spocchia autoriale masturbatoria tipica del "ci faccio un film dove non si capisce una fava, solo per il mio ego criptico e astruso" ma che in realtà cede sotto il peso del nulla (simbolismi, metafore, allegorie non pervenute dal sottoscritto), inibendo e congelando ogni tipo di emozione e coinvolgimento. Narrativamente respingente, dove a poco servono i moventi della magia nera, delle allucinazioni, dell'alchimia, dell'eterna lotta tra il bene e il male, delle leggende celtiche e bla bla bla.
Resta un bel quadretto visivamente ammaliante e poco altro, un'esercizio di stile autoriale sterile e autocompiaciuto, sicuramente bizzarro, ma fondandamentalmente pacchiano e monotono. La stessa sensazione che mi diede, con le dovute differenze, la post visione di
Barry Lyndon.
Wheatly ne parlò come di un prequel di
Kill list (vabbè, a questo punto vale tutto), ma che di
Kill list non riecheggia praticamente nulla (se non la mano del suo autore, che, nel bene e nel male, comunque, si avverte).
Greenaway non abita più quì e di prati e campi (come unica location) per narrare tregende, riti e viaggi allucinatori nell'incubo boschivo della perdizione, molto meglio il sadiano
Libertè.
Nell'insostenibile pesantezza dell'essere gli 86 minuti parevano tre ore e il non capirci un tubo è il male minore.