Tassidermista (Ricardo Darín) affetto da epilessia, ma con ferrea memoria ed in testa l'idea di compiere una rapina, si ritrova per circostanze fortùite solo nel bel mezzo del nulla, coinvolto nell'assalto ad un blindato ricolmo di moneta in trasferta da un Casinò. Pellicola argentina che parte benissimo - ambientata nel bosco, durante battuta di caccia - con predominanza di lunghi silenzi, dialoghi soffusi e l'idea di una predestinazione senza possibilità di essere contrastata. Purtroppo la lungaggine del secondo tempo ed il finale, con risvolto inconcluso, gli fanno perdere parecchi punti.
Un thriller drammatico dalle atmosfere sporche e rarefatte, dal ritmo ampio e compassato, ma con una discreta tensione interna, che non fa mai scadere la narrazione nella noia. Il sempre bravo Darin è un tassidermista epilettico - un tipo lontanissimo dal clichè dell'uomo d'azione - che trova l'occasione del colpo della vita, mettendo in gioco la propria multiforme intelligenza contro la brutalità di infidi e pericolosi complici. Originale e con un filo di poesia.
Quando un colpo partito per sbaglio uccide una bestia che non meritava di meglio, Darin si sostituisce al morto come mente di un colpo grosso cui sono coinvolti altri personaggi pericolosi. E'la materializzazione di una fantasia ricorrente con cui il protagonista sublima un'esistenza infelice e segnata dalla malattia, ma nella realtà non tutto fila liscio e l'epilogo sarà sanguinoso. Ambientato in buona parte in Patagonia, un buon thriller che intriga molto nella prima parte, ha qualche lentezza di troppo in quella centrale e si riprende nel finale. Sempre bravo Darin.
MEMORABILE: I momenti che precedono gli attacchi di epilessia - Il pedinamento del bandito ferito a morte
In una zona imprecisata tra sopraffino ed eccellente, tra misticheggiante e psychonoir si aggira un thriller oppiaceo concepito da Aguirre, capace di rammentarci che il cinema dovrebbe essere qualcosa di vicino al più mistico abbandono, da contemplare religiosamente genuflessi ancor prima che da vedere e consumare. Bielinsky fa della Visione un sacramento da dispensare, della tensione un incenso da aspergere, del cinema tutto un terreno minato di trascendentale, ma alla bisogna è capace di accalappiare come il più ispirato e navigato dei cineasti horror. Recuperarlo è un imperativo categorico.
Belinski costruisce un’atmosfera intrigante nei selvaggi boschi della Patagonia, una location ideale per una storia di mistero, personaggi sporchi e cattivi e suggestioni di soprannaturale (nell’aura che anticipa le crisi di epilessia del protagonista). Purtroppo il ritmo è troppo lento e, cosa ancor più grave, il finale è incerto (si direbbe più per l’indecisione del regista che per scelta narrativa). Interessante, ma un po’ buttato via.
Modesto e ombroso ma dotato di puntigliosa memoria visiva, il protagonista si ritrova fortunosamente implicato in una rapina di un portavalori, tra gente misteriosa e crudele, in una remota zona della Patagonia. L'inizio promette tanto, ma la svolta del viaggio confina tutte le aspettative in un andirivieni di situazioni di cui si afferra sì e no il bandolo, che diluisce all'estremo la forza narrativa e con essa diversi personaggi surrettizi più che essenziali. Anche il finale, nonostante la mattanza, né conclude né apre nuove prospettive e persino Darìn non può dare granché.
MEMORABILE: Il covo di Dietrich; Il cane/ombra; Il recupero della chiave.
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