Una palma d'oro un po' difficile da digerire. Piuttosto noioso nella prima metà, eccessivo nella seconda. Certo, non si nega il mestiere e quello che prova a fare è parlare oltre le parole e le stesse immagini. Ma occorre probabilmente un palato più che raffinato; in caso contrario il risultato è che l'attenzione scema e le palpebre si fanno pesanti.
Una pseudo famiglia formatasi per sfuggire ai conflitti nello Sri Lanka viene accolta in Francia in una banlieue torbida e violenta. Qui Dheepan, la "moglie" e la "figlia" scoprono le difficoltà di inserimento, le reciproche diffidenze e i diversi intenti. Apprezzabile l’intenzione del regista, ma la storia va dalla piattezza dell’ordinario all’incredibile con un finale irritante da soap opera. Non si riesce a empatizzare né a indignarsi anche perché questo tema è stato trattato con mano ferma più volte. Deludente, per la palma d’oro.
L'adattamento passa attraverso la simulazione; la simulazione àltera il contesto e lo sovverte. Con violenza. Nel cinema di Audiard l'estraneità riversa in un cinema di genere che scopre, nei suoi protagonisti, risorse, qualità inespresse apportatrici di un rinnovamento integrale. Deephan è opera minore e tuttavia intensa e immersiva nel dettagliare il processo d'integrazione enfatizzato dai paradossi linguistici; troppo repentino forse nel dirottare l'introspezione verso un'azione convulsa e rutilante, ma persuasivo nel sottendere al compimento del destino un'ancestrale forza identitaria.
MEMORABILE: L'elefante che emerge dalle fronde; l'arrivo dei migranti nella notte.
Gli ultimi venti minuti (ma soprattutto l'epilogo) sotto certi versi molto improbabili (anche se è vero che il protagonista era stato un militare di quelli "tosti"), stridono non poco con il sobrio realismo mostrato fino ad allora. E sono forse il neo principale di un film abbastanza ordinario che non offre guizzi particolari pur raccontando una storia che poteva essere anche interessante, ma non trattata in questo modo (forse per scelta, forse no). Di sicuro rispetto ad altre volte Audiard coinvolge ed emoziona meno. E in ogni caso, è esagerato il massimo alloro a Cannes.
Dopo aver visto questo film ho avuto la sensazione che il premio a Cannes abbia avuto, mai come in questo caso, una valenza sociale, ovvero di valorizzare e portare all'attenzione pubblica ciò che i media ignorano, ovvero la guerra civile nello Sri Lanka. Non che non sia un buon film, ma se la sceneggiatura ha ritmo e i dialoghi sono adeguati nella loro essenzialità e funzionali alla storia, quello che non convincono sono il sottofinale inverosimile e il finale consolatorio.
Togliendo il pre-finale alla JCVD e il finale alla Un medico in famiglia, il film si adagia senza problemi in quella che è sempre stata la poetica di Audiard: cinerealismo senza la crudezza dardenniana ma con un certo stile personale molto riconoscibile. Certo, stavolta la storia non è troppo articolata, ma ha quanto meno il pregio di farci ricordare la lunga guerra civile dello Sri Lanka (le periferie parigine invece sono raccontate come in un opuscolo formativo qualsiasi): il ritmo poi non manca mai, anche grazie a un cast affiatato e ben diretto.
Falsa famiglia cingalese scappa dalla guerra civile per approdare in Francia finendo in un quartiere periferico in perfetto stile Gomorra. Nonostante il buon realismo e la bella prova registica il paradosso è che invece di avere problemi con l'integrazione razziale Dheepan, da ex-militare indurito, farà fatica ad accettare le condizioni di vita imposte dal boss locale fino a un epilogo in stile Mezzogiorno di fuoco che poco si sposa col tenore dell'intera pellicola e con quella sorta di denuncia civile promessa nei preamboli. Credibile a metà.
Una finta famiglia e una nuova vita nei sobborghi parigini. Una pellicola veritiera provvista di un'intensa poetica e una buona analisi introspettiva soprattutto del protagonista maschile, ex combattente delle Tigri Tamil che, vedendo la disgregazione, mostra un proprio lavacro purificatorio per difendere quello falsamente creato. Indubbiamente un ottimo film che evita il qualunquismo del razzismo d'inserimento.
Sincero come abitudine in Audiard, vi si ravvisa però, rispetto alle opere migliori (Il profeta su tutte), un esito semplicistico determinato da eccesso di ambizione nell'approccio narrativo. Così la storia degli immigrati srilankesi che ritrovano la guerra interiore (e non solo) nelle banlieu francesi appassiona sul piano del coinvolgimento cinematografica ma non convince, mancando il raccordo tra intento autoriale e resa quasi di genere (si pensi al finale con la strage della ex "tigre" tamil). Plauso agli interpreti, i cui nomi mangerebbero metà commento.
Racconto sociale diretto bene da Jacques Audiard, il quale sceglie due protagonisti atipici, di nazionalità dello Sri Lanka, un paese che si vede poco nel cinema e che merita attenzione e considerazione; soprattutto qui che si parla di guerra e di persone costrette a scappare e cambiare identità. Ottimi i due, molto abili a cambiare personalità quando il film prende tutt'altra piega dopo un'oretta di tranquillità e in cui tutto sembrava scorrere in maniera tranquilla. In sintesi un buon film che parla di una storia di vita reale poco conosciuta.
La difficile integrazione di un immigrato dello Sri Lanka, con un passato segnato da lutti e violenze, che cerca di rifarsi una vita in Francia con due sconosciute che diventeranno la sua famiglia. Jacques Audiard è autore di un ritratto cupo del personaggio principale, interpretato in modo eccellente dal protagonista, evitando per quanto possibile la spettacolarizzazione e restituendoci un film realista (tranne forse che nel finale), ben ambientato e girato, che emoziona e fa riflettere su quello che un essere umano può vivere se viene dalla parte più povera del pianeta.
Audiard vince la Palma d'oro con questo film e onestamente sembra un'esagerazione. Nonostante la felice intuizione di base e il buon lavoro fatto sulla coppia di interpreti, quello che "Dheepan" offre sono alcune sequenze discrete e una riflessione su limiti e pericoli del percorso dell'integrazione compiuto a metà (volendo essere ottimisti). Ci sono anche delle pecche e parti poco esaltanti che non portano dove forse si poteva arrivare osando di più.
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Hola Capa. Sì battuta a parte effettivamente il lavoro del cast è uno degli atout di un film che, come segnali bene anche tu nel tuo commento, ha alcuni limiti ed evidenti imperfezioni. Grazie a te per la citazione e, ca va san dire, è sempre un piacere leggerti