Nulla di nuovo dietro le fresche frasche insanguinate, ma fibrillazione continua e adrenalina a mille (che conta molto di più dell'originalità o di una bella sceneggiatura)
Cinema viscerale quello di Alemà (che, poche storie, gira coi controcazzi), che regala preziosismi di regia sopraffini (vedasi la Baker che si nasconde sott'acqua per sfuggire al "predatore", e riemerge come Martin Sheen in
Apocalypse Now, le angolazioni delle sparatorie, le stranianti e quasi poetiche derive herzoghiane del bosco con il "predatore" che ammira la bellezza vasta della natura, sottolineato da una ost da brividi-una cura maniacale di Alemà per la bellissima colonna sonora-)
L'inizio dei ragazzi sul furgone a la
Non aprite quella porta, (il cane investito come l'armadillo morto) la foresta impervia e riserva di cacciagione umana di
Predator
, i guerrieri silenti e minacciosi di Hill, i bracconieri bifolchi di Boorman, il gioco della guerra di Hart, in un inferno verde non dissimile da quello di
Eden Lake
Giocando con i cani (sparandole a freddo) in un ludibrio sadico che non dà più emozioni perverse e sanguinarie ai predatori, il mattatoio con cani vivisezionati, smembrati e ridotti a macabre sculture, fucilate a bruciapelo (seguite da saluti educati per tuttarisposta), gambe tranciate dalle mine antiuomo, frecce scoccate con la balestra che feriscono ma non uccidono, ragazze massacrate a colpi di machete, gole recise con fluviali emmorragie ematiche, picconate dritte al cuore, in un wargames della morte, tutto sotto l'ardente luce del sole, con derive nel torture porn (il fetido covo dei predatori) per poi chiudere con un finale beffardo, crudele, senza speranza.
Alemà guarda a certo horror country/redneck americano intinto di slasher, adotta un respiro internazionale nella narrazione che ha poco da invidiare a modelli più illustri che vengono da oltreoceano, sceglie le facce giuste (lo "zio" è un misto tra Robert Duvall e un sanguinario dio della guerra, il suo socio sembra uscito dalle lande sperdute di un
Deliverance tra i balcani e la Baker c'ha una fisionomia tagliata con l'accetta, lontano mille miglia dalle bellezze classiche cinegeniche, con quel naso un pò così, che si trasforma in una dea Diana senza pietà, il resto è solo carne da macello), non molla la presa per un secondo, tra fiumi, alberi, campi minati, sole battente, montagne, cani, pipistrelli, topi , ragni, lucertole e cinghiali nei momenti più inopportuni, gettando la sua "pericolosa partita" a un punto di non ritorno.
Comparto musicale eccezionale (d'altronde Alemà viene dalla musica), fotografia ammantata di squarci agorafobici e torridi che ricordano quella di Daniel Pearl del remake di
Non aprite quella porta (contribuiscono anche le location boschive laziali, un non luogo in nessun posto sperduto nel nulla), montaggio frenetico che non sbaglia un colpo e un look estetico che dimostra (ancora una volta) che il cinema di (de)genere italiano arde sotto la cenere.
Come indifferente spettatore del massacro, un aereo di linea che passa sopra il bosco, unico simbolo di civiltà in un pezzetto di mondo barbaro e disumano, dove vige solo il senso predatorio e le , poche, regole della guerra (
aspettiamo la loro prossima mossa)
Il soft-air apocalittico di Alemà è promosso a pieni voti, pregno di un talento da tenere assolutamente sotto controllo.
Sparare ai cani non mi diverte più