L'inizio non faceva sperare bene: lunghi silenzi, campi lunghi, inquadrature fisse, Affleck che si sbaciucchia la Mara in voglie di tenerezza assai fastidiose, spocchia parakubrickiana (la lunga inquadratura asettica alla morgue prima del risveglio) con quella patina autoriale snobbona tipica da Sundance.
Poi, per magia, qualcosa muta, e questa opera così balzana e eccentrica (che non assomiglia a nessun altro film) conquista per la sua delirante poesia e diventa un surreale horror sui generis, tanto inquietante quanto toccante e straziante.
Quello che sembra di una disarmante semplicità (il classico fantasma con il lenzuolo e i buchi sugli occhi, tipica figura bambinesca folkloristica) riesce a inquietare e, a volte, a mettere a disagio (lo faceva già Michael Myers nelle prime notti carpenteriane, inforcandosi, però, degli occhiali da sole al posto dei proverbiali fori
Ti si è spuntata la scimitarra?), con la sua silente, ininterrota e sofferta presenza, spettatore invisibile (e a volte dispettoso, soprattutto mosso dalla gelosia-la sua ragazza con un nuovo possibile ragazzo-o minaccioso-l'intolleranza verso la madre single messicana e i suoi due figlioletti-che scatena in lui iraconde manifestazioni che stanno tra un
Poltergeist intimista e una versione seriosa di
Beetlejuice), ossessionato da quel bigliettino nascosto nell'intercapedine del muro dalla sua amata, ma , quando è sul punto , a forza di grattare la parete, di leggerlo, qualcuno lo interrompe di continuo.
Azzeccata la scelta del regista di girarlo in letterbox e con alcuni momenti davvero deliziosi (i due fantasmi che si salutano e si parlano, con il pensiero-entrano a forza i sottotitoli- dalla finestra: "Ciao", "Sto aspettando qualcuno", "Chi?", "Non me lo ricordo più", la demolizione della villetta, la costruzione del palazzo, il fantasma che si aggira , senza pace, nella prateria, gli sbalzi spaziotemporali che vanno da un futuro bladerunneriano sino ad un passato fatto di pionieri, massacri e bimbe in avanzato stato di decomposizione (in un meraviglioso cortocircuito che stà tra
Blade runner,
La casa 2 e
Soldato blu), per poi ritornare al punto di partenza, in un loop circolare che sfiora la genialità (lui, la sua donna, il fantasma che vede il fantasma che vede lei uscire di casa).
Pare semplicistico, ma è molto più complesso di quanto non si creda, abbagliato da momenti puramente suggestivi (il fantasma che si aggira, invisibile, tra i corridoi dell'ospedale e vede la luce proiettata sul muro, il fantasma che cerca di comunicare con la sua amata tramite le frasi di un libro, il silente e stilizzato incidente d'auto all'inizio, la sua amata che lo lascia da solo andandosene per sempre, la casa che cade a pezzi, nel suo abbandono, con il fantasma che continua a grattare la parete per estrarre il bigliettino) fino a attimi disturbanti (mi è venuta la nausea), come la Mara che si ingozza di torta in un piano sequenza di ben 4 minuti.
Del Toro non ha tutti i torti a definirlo uno dei "ghost movie" più originali e personali mai girati, così intimista, dolente, riflessivo e mesto, ma anche dotato di evoluzioni narrative che lasciano stupefatti (il presente, il passato, il futuro).
Lowery si prende i suoi tempi (anche eccedendo a volte, come la già citata scena della torta, la resurrezione alla morgue o il tipo che paventa la fine del mondo prendendo di mezzo la nona sinfonia di Beethoven, l'universo e il regredire allo stato brado dell'umanità), ma sono funzionali a questa sospesa e inusitata storia d'amore e di morte, di dopo la vita, di sofferenza continua, perduta nel tempo e nello spazio.
Sfuggente e incatalogabile e decisamente fuori da ogni schema prestabilito.