1994. La giovanissima ragazzina coreano-americana, una sera come tante, viene rapita con l'inganno da una potente organizzazione della tratta delle bianche, che costringe le ragazze rapite (di tutte le nazionalità), tenute segregate in un bunker nel bel mezzo del deserto del Nevada, a prostituirsi con clienti facoltosi (pena torture e sevizie con vasche ricolme di ghiaccio o addirittura la morte-che avviene anche allo scoccare della maggiore età, in una versione agghiacciante della
Fuga di Logan, perchè ormai "consumate" e da "buttare"-).
Niente di nuovo sotto il sole del cinema di denuncia (di quello che sembra un film "dossier"), della solita ragazzina ingenua rapita, gettata brutalmente e improvvisamente in un inferno fatto di umiliazioni, costrizioni, sevizie, condito con ogni tipo di crudeltà, tenuta prigioniera, con una cavigliera elettronica, in un non luogo e ormai morta agli occhi del mondo, che poi cresce in fretta e si riscatta nella solita catarsi da "revenge movie"
Però Megan Griffiths sà tenere la tensione per tutti i 93' minuti, gettando il suo racconto (tratto da una storia vera) in un ottica quasi horror (la sequenza in cui Eden evira a morsi uno dei clienti, e poi fugge gridando aiuto con la bocca sporca di sangue e un gran bel pezzo di cinema exploitation) e con spizzichi e bocconi da "torture porn"
Ma forse una scatola contenente gli effetti personali di una bambina costretta a prostituirsi, arriva dritta allo stomaco più di una testa sfracellata
E anche se spesso arretra e suggerisce anzichè mostrare, ci sono notevoli-seppur brevi-scoppi improvvisi di violenza e momenti di reale disagio, irrobustiti dallo score di Joshua Morrison, dalla fotografia di Sean Porter, dalle location arse dal sole che fanno tanto desolazione e
Non aprite quella porta e affini e dalla bravura degli interpreti (sofferta la prova di Jamie Chung)
Insomma, pur raccontando la solita storia di prigionia e riscatto, l'atmosfera rimane comunque zozzerella e piuttosto laida
Dalle ragazze portate sul set di un film porno s/m; dalla scena dei gattini, alle esecuzioni, alla stanzetta con le incubatrici, alla rimozione dell'apparecchio dentale, all'anello recuperato tramite defecazione, alla brutalità più psicologica che non fisica, alla delatrice Svetlana (che ricorda sonorità del Rifki di
Fuga di Mezzanotte), la droga provata sulle ragazze divenute per un attimo delle cavie, la sequenza dello smalto-che sembra la più banale ma è quella che più mi ha colpito per brutalità-, la terribile "finta" esecuzione in mezzo al deserto della ragazza ucraina.
Inframmetizzato, poi, da scoppi di violenza improvvisa (l'uccisione a freddo dello sceriffo e di un testimone davanti alla fossa, una trappola per coyote, dove e stato rinvenuto il corpo di una delle ragazze fuggite, la fine di Beau Bridges sulla barchetta, l'esecuzione di Ivan nella vasca, Eden che si spezza il tacco 12 per, se lo infila lì, per usarlo contro la ruffiana Svetlana)
Viscido e luciferino un ritrovato Beau Bridges (sceriffo dalla facciata integerrima che e a capo dell'organizzazzione criminosa), sorprendente Tantoo Cardinal, l'infermiera nativa americana del bunker, volto scolpito nella roccia solcato da cicatrici e chiude uno schizzatissimo e nevrotico Matt O'Leary, carceriere strafatto e psicotico
Nulla di originale o sorprendente, ma comunque ben teso, sporco e con un finale (nella cabina telefonica) che spezza il cuore.