Non un film sul Grande Fratello ma sui suoi effetti secondari, su ciò che il miraggio di un facile successo può causare in una società ingenua e impreparata. Il mondo virtuale in cui si muovono come marionette lontane i personaggi del reality costruisce intorno a sè una barriera inattaccabile ai più, che quando per puro caso riesce ad essere avvicinata può originare sogni di ricchezza e conseguenti, pericolosissime reazioni a catena. E' quello che accade a Luciano (Arena), pescivendolo napoletano che, spinto dai figli a tentare un provino del Grande Fratello in un centro commerciale, viene miracolosamente scelto e contattato per partecipare alla selezione ufficiale. Non si sa ancora se parteciperà...Leggi tutto o meno alla trasmissione, ma basta questo a sconvolgergli d'improvviso la vita, e già c'è chi lo saluta come un vincitore. Enzo (Ferrante, ottimo), un ex concorrente del gioco che viene celebrato a matrimoni e feste in discoteca come una vera star, rappresenta fin dall'inizio la materializzazione del sogno, nonché l'unico contatto reale che Luciano ha col mondo artificiale della televisione, un vero "altro pianeta" che noi spettatori, confinati coi protagonisti tra le grigie mura partenopee, arriveremo a conoscere da vicino solo nel finale, durante una lunga esplorazione nella casa di Cinecittà dal sapore fortemente surreale destinata a chiudersi con un'inquadratura a salire verso lo spazio, come ad allontanarsi da quello che anche noi finiamo col percepire in definitiva come un pianeta alieno. Lo spunto da cui muove Garrone non è nuovo, ma naturalmente conta come viene sviluppato, e nessuno può negare al regista di saper filmare la Napoli popolare con un gusto e un realismo che colpiscono anche chi già l'aveva conosciuta in GOMORRA. Tecnicamente ci si perde, tra carrellate lunghissime, antri bui e fatiscenti da osservare affascinati, saliscendi di scale coperte da sontuose arcate, piazze riprese con impeccabili panoramiche... Non v'è dubbio che, aiutato anche dal dialetto stretto (all'occorrenza sottotitolato) e da personaggi tridimensionali nella loro genuinità (straordinario Nando Paone) Garrone raggiunga a tratti vette "nerorealiste" sublimi, ma va d'altro canto notato quanto non manchino momenti in cui il film s'affloscia, perde di grinta (non a caso a cedere è soprattutto il secondo tempo), ripete se stesso finendo col rasentare talvolta il macchiettismo, nonostante i forti richiami di un cast verace e convincente. Pregi e difetti di GOMORRA rimangono sostanzialmente immutati, con la differenza che la crudeltà esplicita della violenza camorrista è qui sostituta da quella più psicologicamente subdola (e molto meno appariscente) di certa televisione, le cui responsabilità non potranno mai essere accertate con la stessa immediatezza.
Garrone, senza tradire lo stile usato in Gomorra, si cala di nuovo nella realtà napoletana, ma stavolta usa, come pretesto, il desiderio di entrare a far parte del Grande Fratello. E, analizzando bene i due contesti, alla fin fine sembra che l'autore voglia dire al pubblico che partecipare a un programma così inutile pur di raggiungere il successo (o meglio, i soldi) non è un'operazione meno letale di quanto lo siano quelle compiute in Gomorra. Infatti il protagonista sfiorerà la follia...
Garrone insiste con i suoi semi-pianisequenza appiccicati ai protagonisti: la macchina è liberissima, dà il voltastomaco, come la storia che si racconta: grottesca, nauseante. Il personaggio che impazzisce perché la televisione pare non richiamarlo dopo un provino se l'era già inventato Aronofsky in Requiem for a dream, ma Garrone italianizza il dramma ponendolo là dove la reality-italianità da quasi luogo comune è più marcata che altrove: Napoli, quartieri popolari, con tutta l'artificialità dentro la mente dei suoi abitanti. Un po' manierato, ma notevole.
MEMORABILE: "M'agg' fatto caré u core entr'i cazett'!"
Tony Manero in coppa a 'o Vesuvio. Non siamo nel Cile di Pinochet, ma nell'Italia di oggi, crogiolo di sogni guidati dalla voglia di apparire a tutti i costi, della ricerca spasmodica della "svolta". Il punto forte della pellicola, più che nella descrizione della discesa nella follia del protagonista (la storia mostra decisamente la corda nella parte finale), sta nell'amarissimo ritratto che Garrone ci offre di chi si muove in questi non luoghi del corpo e della mente. Grande lavoro di attori, vero motore del film. Mezz'ora in meno non avrebbe guastato.
La ricercatezza ieratica, sublime e trascendentale molto si adattava all'italica Gomorra, ma poco risulta confacente con la sconcertante realtà donde il titolo. Garrone s'insinua in una forzosa rilettura compiaciuta del banale, del così tremendamente tangibile ed empirico da non meravigliare persino il più stolto degli speculatori terreni; figurarsi convincere... Troppo paradigmatico per l'affetto, troppo quotidiano per l'allegoria. Ad uso e consumo dei "detrattori" radical chic pronti ad digrignare i denti innalzandosi a scappatoia antropologica. **
E' la storia di una speranza, che si tramuta in ossessione, sfociando poi in vera e propria paranoia. Gli attori sono in parte e assolutamente naturali. Più che la sceneggiatura, qui è il loro contributo ad essere fondamentale per mantenere la pellicola a un buon livello. La vicenda scorre senza troppe forzature; e il colorito e ben nutrito contorno del protagonista (parenti, amici e clienti, prodotti Felliniani di una società parodisticamente vera) fa sì che non tutto il peso gravi sulle sue spalle (Paone è una piacevole e educata spalla). Solo nel finale denota una certa stanchezza.
MEMORABILE: La truffa del robottino; La finta telefonata in piscina; Il grillo che non dovrebbe essere lì ("Nu fatte strane..."); Il bagno-confessionale.
Amarissima ballata popolare addensata tra i cunicoli della mente e tra gli ambienti caratterizzanti di una vita intera. L’aura kitsch domina le facili illusioni della vita e i sogni infranti e Garrone eleva il contesto rendendolo fiaba contemporanea di sfuggente ironia e dolente realismo/attualità. Come osservato da un grande occhio giudicante, è un percorso tra infantilismo e surrealità, tra paranoia e follia, specchio di una società che non riflette avvinghiata al voler apparire, al “tutto e subito” frutto di stenti e ignoranza. Vibrante.
MEMORABILE: La telefonata anonima...; Il ritorno a casa; Il finale.
La realtà irreale dei reality diventa carne e sangue nella figura di Luciano Ciotola. Regista dell’operazione è un Garrone in buona forma che analizza in modo lucido e spietato un certo modo di pensare e di vivere, ascrivibile ad ogni latitudine del nostro paese. E così “mai” titolo fu più veritiero: ciò che ci viene raccontato non è un semplice film di fiction ma un pezzo di vita vera, vissuta. La regia è solida, sobria e senza inutili personalismi e svolazzi. Cala un po’ nel finale. Cast ben assortito ed in buona forma. Molto bella la colonna sonora di Desplat. 3+ con qualche riserva.
C'è qualcosa di spaventoso nell'ingenuità di Luciano, che lo conduce alle soglie della follia. Inquieta il modo in cui la sua coscienza viene soggiogata dal sistema inducendolo ad una performance autistica degenerativa. Tra centri commerciali, parchi gioco sull'acqua, feste di matrimonio, piazze di paese e discoteche, Garrone rileva una topografia coscienziale dalla quale è difficile sentirsi esclusi e che invita a ripensare il nostro principio di realtà. Collodiano, si è detto, ma senza mastri geppetto e fatine: solo grilli silenziosi e vigilanti, solo enormi balene senza uscita.
Il Grande Fratello è la cartina di tornasole che fa esplodere la follia del protagonista, casualmente proiettato verso la possibilità di entrare nella "casa" televisiva per eccellenza. L'esasperazione macchiettistica della patologia rende però poco credibile la denuncia, se tale voleva essere, della mutazione antropologica provocata da un modello basato sull'apparire. Garrone dà invece il meglio di sè nell'ambientazione partenopea, fra palazzi fatiscenti popolati da un'umanità deforme e inconsapevole, osservata con occhio quasi pasoliniano.
Nel film, il Grande fratello è solo il pretesto narrativo, laddove il tema è la manipolazione di grandi sistemi persuasivi sulla società. Illuminanti a questo proposito i momenti finali oltre che la lunga sequenza iniziale, nella quale il regista dimostra una grande padronanza del mezzo. Straordinaria la capacità del regista di rappresentare l'ambiente del protagonista (l'eccellente Aniello Arena), con l'ordinario squallore quotidiano che si contrappone alla realtà di cartapesta televisiva percepita come più vera del reale. Notevole.
Una prova forse minore rispetto alle sue opere più celebrate, ma anche in questa amarissima commedia dai tocchi grotteschi e felliniani Garrone trova il modo di riversare la sua grande energia registica, disegnando un universo dolente e contradittorio, forse anche un tantino sopra le righe, ma sempre sorretto da stile rigoroso e capacità di immedesimazione.La critica alle seduzioni mediatiche della notorietà a buon mercato non è moralisticamente strillata, ma emerge dalla narrazione, a cui il regista si abbandona e ci abbandona.
Garrone fa centro con un film quasi neorealista, amaro ma non pesante, anzi quasi allegro a causa di un cast particolarmente verace e convincente: Arena è bravissimo, ma lo sono anche il veterano Paone, la Simioli, Nello Iorio e tutti i comprimari che compongono la famiglia del protagonista. Riuscita anche la satira del facile successo promesso da certe trasmissioni televisive, dell'ossessione di diventare famosi e ricchi all'istante. Qualche lentezza (dovuta alla scelta dei piani sequenza), ma è oro, nella produzione italiana odierna.
Il tessuto della realtà degenera contaminato da ossessioni e paranoie e dal chimerico inganno di una vita facile, dove si spicca il volo perdendo di vista la terra. Il volteggiare di Enzo (mortificante icona del vuoto moderno) sospeso in discoteca ha qualcosa di felliniano nella sua grottesca presenza; così come è grottesca e scintillante la caratterizzazione degli esondanti personaggi in scena. Garrone dimostra ancora di saperci fare sia sul piano formale che sostanziale, imponendosi nuovamente sul panorama del nostro cinema come faro splendente.
Garrone realizza questa ottima commedia sulla televisione e il potere che essa ha assunto nell'ultimo ventennio. La regia (fatta di panoramiche e di primi piani molto suggestivi) sfrutta il cast per offrire interpretazioni veramente convincenti in un napoletano molto sentito dai protagonisti. Bravo il protagonista (ex carcerato, prima volta in un film), ma è da menzionare un bravissimo Paone (da Benvenuti al sud) che dà ritmo al film. Garrone sfrutta bene le location; resta però l'impressione di un finale veramente incompleto. Bello.
L'ergastolano Arena (già voluto per Gomorra ma non concesso dalla legge) è il volto perfetto dello scugnizzo napoletano che si lascia sedurre dalle lusinghe della fama. Garrone lo racconta con raffinata tecnica (i piani sequenza sono una grandiosa metafora dell'occhio voyeur dello spettatore) ma anche con qualche calo, scivolando tra commedia, comico e surreale. A questo proposito, meravigliosa la spirale finale in cui la non identità di questo Mattia Pascal neorealista viene esaltata in modo sublime.
MEMORABILE: Il piano sequenza dei cambi d'abito, post matrimonio. Il finale surreale.
Una sorta di Truman Show al contrario (richiamato dall'apertura della porta nel finale) che dà modo a Garrone di esercitare un umorismo crudo e concretamente surreale e ovviamente di dirigere con l'ariosità di chi sa come mettere in scena la realtà piegandola al correre di una storia che parte da uno spunto reale ma che va ben oltre, un'analisi lieve e spietata dell'ignoranza che può generare la povertà; un fenomeno che non scemerà con la benvenuta chiusura della casa del GF, ci sarà presto ben altro a instupidirci.
Fin dove arriva la realtà e inizia il "Reality"? Garrone mischia i due piani (la scena iniziale del matrimonio non è pur sempre Reality?), raccontando i sogni di grandezza odierni in una Napoli che esiste per davvero; descrivendo cosa c'è dentro il desiderio di apparire, da parte di chi sorvola e nega a sè stesso le difficoltà quotidiane. Il risultato è una brillante, amara, soddisfacente commedia, alla maniera dei grandi.
Passano dagli occhi al cuore le scene del matrimonio, il ritorno al quartiere con la sua architettura tragica e perfetta, il provino a Cinecittà, il secondo ritorno al quartiere stavolta in festa, l'addio alla pescheria. Purtroppo, con la cessione della pescheria, il film smette di raccontare, si ritorce con la paranoia e la depressione del protagonista, insiste oltremodo sull'oppressione da Grande Fratello, dimentica tutto il costrutto precedente e si conclude in maniera deludente, troppo facile.
Camera con vista sui confini del cafonal-cheap dove l’immagine vale tutto e apparire è più che esistere. Garrone gira con mestiere questa forma di neorealismo meridionale sebbene dia l’impressione di non riuscire a centrare l’obiettivo. Analisi di una situazione sociale senza voler denunciare il sistema che l’ha partorita: ci rende spettatori di un già visto, ma senza partecipazione. Il finale è notevole.
Garrone chiama a raccolta una folta schiera di attori, sublimi nel raffigurare il divertito e inconsapevole rimbecillimento di parte della società tricolore per la quale nutrire (ad minchiam) il corpo è necessario, la mente un optional. Riadatta il neorealismo ai giorni nostri superando i maestri degli anni 50, dando spazio a questi moderni disperati le cui maschere visuali ritrae con consumata abilità nei vecchi e nuovi luoghi di comunanza: residenze pacchiane, centri commerciali, acquapark. Farsesco, poetico, cafonale, desolante ma vero.
MEMORABILE: Enzo e il suo "Never Give up!" (con accento napoletano).
Perla bella e commovente nell’ormai depauperato scrigno cinematografico. Il talento di Garrone sta tutto nella pervicace rinuncia all’arido (e sciocco) pamphlet massmediologico, in vista d’un ritratto d’ambiente (Napoli, il quartiere, la grassa famiglia, il Grande fratello) capace di trasfigurare con progressiva inesorabilità verso un esemplare caso patologico (il grottesco autismo esistenziale di Luciano). Saturo di riferimenti filmici (Fellini e Rossellini, Ferreri e Bunuel): nubi di ieri che ci restituiscon però originalmente il nostro domani odierno.
MEMORABILE: La panoramica iniziale con la carrozza “bunueliana” che arriva nella sala ricevimenti; Luciano che si strucca; La piscina; Paone alla via crucis.
L'ossessione paranoica di un pescivendolo dopo aver partecipato ai provini del GF. Una denuncia satirica e cattiva di certi condizionamenti psicologici che colpiscono la gente semplice abbagliata dalla gioia di un successo effimero. Garrone realizza un bel film, lucido e attento affidandosi a interpreti appropriatissimi e realizzando dei piccoli ma significativi virtuosismi registici.
Garrone disegna un ritratto grottesco ma anche credibile del pensiero che ha accomunato molti aspiranti a entrare nella casa del Grande Fratello: l'illusione di un provino "riuscito" e l'occasione di diventare "qualcuno" (non importa chi); l’agio senza lavoro; apparire e non essere; una vita riscattata. La diabolica macchina delle illusioni dei reality che ha trasformato l'uomo qualunque nell'attore fallito che attende una telefonata che non vuole arrivare e il reale prospetto di essere un uomo non atteso.
È impressionante come Garrone riesca ogni volta a dipingere alla perfezione i classici siparietti napoletani che avvengono quotidianamente. E lo dico da napoletano. Ma Reality non è solo questo. È un viaggio allucinato attraverso il potere semi occulto di alcune trasmissioni e sui danni che possono provocare su ingenuotti e ignoranti. Garrone inoltre mostra una padronanza della mdp e una maturità maggiore rispetto a Gomorra. Cast già visto ma perfetto nei ruoli assegnatili. Bravo l'interprete principale ma bravi anche Paone e la Simioli.
MEMORABILE: Arena: "Fai attenzione che GF ci sta osservando!", Paone: "Ma chi? La guardia di Finanza?!"; La scena del grillo e la paranoia di Arena.
Per quanto mi riguarda Matteo Garrone si conferma sino a oggi uno tra i migliori registi del panorama italiano. Storia al limite dell'originale che, pur non criticando apertamente il GF, ne evidenzia l'effetto che può avere su determinate persone (bravo Aniello Arena). Può essere definito una sorta di omaggio al cinema neorealista.
Quasi angosciante rappresentazione della paranoia verso cui viene indotta la credenza verso un mito odierno. Al di là delle già note considerazioni sociologiche, è curioso notare come la trasmissione televisiva (vera protagonista del film, per certi versi) non abbia negato l'uso del suo marchio, all'insegna del "si parli pure male di me, purché se ne parli". Film molto notevole. Unica pecca il finale surreale. Interpretazioni ottime, con un eccellente Nando Paone.
Il personaggio del pescivendolo che a poco a poco perde la testa sognando la partecipazione a un reality show è di quelli che ‘bucano’: azzeccatissimo nella scrittura e nell’interpretazione, un Pinocchio moderno tra ingenuità e follia, perfettamente calato in una Napoli da neorealismo filtrato da una sensibilità barocca, un po’ apologo eduardiano, un po’ commedia all’italiana e un po’ bizzarria grottesca alla Totò. Film sontuoso, anche nel ritmo, talvolta un po’ slabbrato (soprattutto nel finale), ma pur sempre avvincente.
Video-male quant’è bello spira tanto risientimento. La grande bellezza è pirandelliana vanitas vanitatum vanitas dei (primi)piani di un reale che altro non è che la sfasata percezione che di esso si ha. Garrone incolla il saper raccontare una piccola tragedia di un uomo ridicolo sull’inferenza del teorema di un delirio che esondando dagli schermi ha contaminato la quotidianità. Grande slancio pittorico di una mdp aerea, schiettezza interpretativa di riguardo e fotografia lusinghiera, ma anche un rimprovero dottrinale contro l’influsso mediatico che sa di colpo di bazooka contro le farfalle.
Un'ottima idea che purtroppo non ha avuto un'adeguata realizzazione. La prima scena della festa di matrimonio burina sembra avere un po' troppe ambizioni autoriali, con la mdp che cincischia sui particolari della pacchianeria napoletana senza un particolare motivo. Poi capiamo il perché del tutto e la storia inizia a interessare sempre più, ma dopo la vendita della pescheria si incartoccia malamente nel surrealismo e segue un soggetto poco credibile. Molto meglio le parti neorealistiche di vita napoletana, dove la regia è più simile a Gomorra.
Il pescivendolo napoletano che perde il senso della realtà per l'ossessiva illusione di poter partecipare al Grande Fratello incarna il vuoto televisivo che domina i nostri tempi. Garrone si conferma maestro di neorealismo affidandosi a un attore carcerato per mostrare, tra tragedia e farsa, il degrado e la sciatteria di certi ambienti dove il successo televisivo è l'unico valore di riferimento.
Seppur come sempre penetrante e attuale (anche per il ricorso, illuminante, ad attori non professionisti), è il capitolo della filmografia garroniana nel quale più evidenti emergono i debiti con certo cinema estero, dalla vita come costante set televisivo di Truman show (qui però smascherato dall'apparente arguzia del protagonista, convinto di aver riconosciuto attorno a lui trame e intrighi) sino all'ossessione per l'immagine mediatica che pervadeva alcune linee narrative di Requiem for a dream. Lascia a disagio, ma graffia meno dei predecessori.
Garrone ci racconta una storia di ordinaria follia televisiva con li garbo di chi narra il dramma della desolazione contemporanea riuscendo a far sorridere. I sogni di gloria dell'odierno, vuoto mondo televisivo, si infrangono di fronte a vite disperate che si illudono di potervi diventare parte. Un gioco di immagini, aspettative e fama in cui per emergere si cerca di essere "interessanti". Ottimi gli interpreti, ambientazioni popolari molto efficaci e finale beffardo.
Ancora una volta la macchina da presa di Garrone si muove quasi invisibile. Nel seguire la vicenda di quest'uomo ossessionato dal Grande Fratello non si ha mai la percezione che gli attori stiano recitando, tanto che si potrebbe quasi parlare di mockumentary. Obesità, teledipendenza, povertà culturale prima ancora che economica, mostrate senza filtri ma anche senza giudizio: uno spaccato delle macerie lasciate da certo berlusconismo televisivo in cui nessuno si salva. La risata finale del protagonista, finalmente in Tv, anticipa quella di Joker.
Poche splendide inquadrature e siamo nella "follia" del "castello delle cerimonie" che dà i natali al povero Ciotola costringendolo a vivere continuamente un sogno di celebrità, fasti e carrozze a braccetto con muri "sgarrupati" e l'arte partenopea d'arrangiarsi. Al fianco di un grande Arena, su tutti un Paone in gran forma, quasi un moderno grillo parlante. Difficile immaginare una rapprensentazione migliore di una società ammaliata e umiliata dal sogno di facile celebrità. Garrone colpisce ancora nel segno.
Un uomo che cerca di sopravvivere anche grazie a traffici illeciti viene convinto dai figli a partecipare ad un provino del Grande Fratello. Da lì in avanti l'illusione di diventare una star della televisione prenderà il sopravvento. Tutti vengono fagocitati dal mondo incomprensibile e allucinato della televisione che pesca e poi trita a piacimento storie e personaggi capaci di durare una vita o meno di un secondo. Questo di Garrone è un film amarissimo che non fa sconti a nessuno e che lancia, forse involontariamente, un grido di allarme verso un mondo egoista e spietato.
MEMORABILE: L'interpretazione realistica e fortemente drammatica di Aniello Arena.
Dopo alcune pellicole più cupe, Matteo Garrone cambia registro e lo fa con le peripezie, seppur tragicomiche, del povero Luciano (l'ottimo Aniello Arena al suo esordio, vincente con la sua espressione inebetita): se infatti la prima parte regala alcuni sorrisi, non può sfuggire la progressiva e amara constatazione (o velata critica) dell'appiattimento/abbrutimento dei sogni, delle speranze, delle ambizioni, della mediocrità imperante spacciata per divertimento e successo. E così alla lunga prevale una lieve tristezza, con le buone prove di Paone e Simioli, seppur con toni da fiaba.
MEMORABILE: L'applauso corale al ritorno dal provino; L'imboscata nel bagno della discoteca; Il matrimonio cafone iniziale.
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Visto ieri per la prima volta. Devo dire che Garrone ha centrato l'argomento e sono convinto che non sia andato poi così lontano dalla verità (almeno in una certa realtà dove l'ignoranza e la sopravvivenza regnano sovrane). Unica pecca è che per me il regista ha affrontato l'argomento in maniera tardiva, poiché la smania per i provini del GF e la relativa ansia dall'esser chiamati sono roba ormai di dieci anni fa. Ricordo che nei primi anni Duemila c’erano dei forum dedicati con centinaia d’iscritti. Anche il “divo” del GF che è mostrato nel film è roba anacronistica, tant'è che non ricordo un personaggio diventato celebre grazie al GF da anni.
Confermo anch'io che l'opera di Garrone ricorda molto il film Tony Manero. Sarebbe interessante capire se di ispirazione si tratta o è solo una casualità.
Segnalo, al di là delle già note considerazioni sociologiche, come la trasmissione televisiva (vera protagonista del film, per certi versi) non abbia negato l'uso del suo marchio, all'insegna del "si parli pure male di me, purché se ne parli".
DiscussioneBrainiac • 1/01/15 17:33 Call center Davinotti - 1465 interventi
Markus ebbe a dire: Anche il “divo” del GF che è mostrato nel film è roba anacronistica, tant'è che non ricordo un personaggio diventato celebre grazie al GF da anni ma il "divo" del gf infatti non partecipa a trasmissioni nazionalpopolari o a grosse manifestazioni televisive (o almeno non è quello che Garrone ci mostra), bensì a cerimonie nuziali grottesche, a provini in centri commerciali anonimi, o al massimo presenzia a serate discotecare di terz'ordine. E' proprio quello secondo me il punto: l'italiano medio -anche nel Sogno ahimè- è limitato alla squallida prospettiva di "svoltare" ma senza la minima idea di dove potranno approdare le sue ambizioni. Il protagonista di Garrone vuole scappare dalla propria, di "reality", per calarsi in una dimesione fittizia in cui perdersi definitivamente (si veda la stupenda scena finale, dagli accenni quasi thriller e spettrali).
La bella colonna sonora dai toni fiabesco-surreali è opera di Alexandre Desplat.
Il compositore aveva realizzato musiche per The Queen, Il Curioso Caso di Benjamin Button, Il Discorso del Re, gli ultimi due Harry Potter e The Tree of Life.
Bel film però - ancora una volta - non ne esce bene il popolo napoletano. Non so, sono stereotipi ? Resta la sensazione che la tesi di Garrone sia subordinata al popolo partenopeo. Mi è un po' mancata (ma credo non fosse l'obiettivo di Garrone) una deriva totale dell'Italia. Questa è una mia visuale che non inficia il bel film appena visto.
DiscussioneRaremirko • 27/05/16 22:25 Call center Davinotti - 3862 interventi
Kanon ebbe a dire: Bel film però - ancora una volta - non ne esce bene il popolo napoletano. Non so, sono stereotipi ? Resta la sensazione che la tesi di Garrone sia subordinata al popolo partenopeo. Mi è un po' mancata (ma credo non fosse l'obiettivo di Garrone) una deriva totale dell'Italia. Questa è una mia visuale che non inficia il bel film appena visto.
Guarda, perfettamente d'accordo, un pò come avveniva ne L'uomo delle stelle di Tornatore.
Effettivamente pure il nord non è che sia 'sto paradiso, sotto più aspetti...
DiscussioneZender • 28/05/16 07:52 Capo scrivano - 47698 interventi
Non lo so, la storia di REALITY in fondo avrebbe potuto essere ambientata ovunque, in Italia. Napoli ci ha dato in più il folclore tipico.
DiscussioneRaremirko • 29/05/16 23:24 Call center Davinotti - 3862 interventi
Zender ebbe a dire: Non lo so, la storia di REALITY in fondo avrebbe potuto essere ambientata ovunque, in Italia. Napoli ci ha dato in più il folclore tipico.