Sempre possente il cinema di Scorsese, anche quando mette da parte la sua indole autoriale e si getta a capofitto nel puro spettacolo di genere (lo aveva già fatto con quel capolavoro che è il remake di
Cape fear, dove, a differenza di
Shutter Island, non rinunciava a fare un film alla Scorsese-a proposito, occhio al detenuto in cella con la schiena tatuata nell'infernale padiglione C-).
In una coltre cupa, caliginosa, umida e fosca, Scorsese realizza la sua versione della
Fossa dei serpenti e del
Corridoio della paura, tra riverberi da noir classico e gli orrori della guerra, stati di allucinazione visivamente devastanti e fiammeggianti e nerissimi inabissamenti ad un passo dall'horror (le frotte di ratti nosferatiani che escono improvvisamente dalle grotte sulle scogli, il volto sfigurato di Elias Koteas che assomiglia in modo impressionante alla creatura di Frankenstein impersonata da Robert De Niro nel capolavoro branaghiano, la mostruosa paziente calva che, all'arrivo nell'istituto dei due agenti federali, intima Di Caprio al "silenzio", la Williams con la schiena ridotta a braciere, i corpi semicongelati dei deportati a Dachau, il girone infernale del padiglione C, la madre insanguinata e la sua prole senza vita che si palesa a Di Caprio nei suoi incubi indotti dall'emicrania) che aumentano il disagio e sprofondano lo spettatore in un atmosfera di angoscia e opressione, che attanaglia già quando si aprono i cancelli di Ashecliff.
Non rinunciando ai suoi scoppi di violenza (il piano sequenza della strage dei soldati tedeschi con il sangue che sprizza ovunque, l'ufficiale nazista disteso in una pozza di sangue con il volto mezzo maciullato da un colpo di pistola), Scorsese guarda all'amato Hitchcock, mozza il fiato ogni volta che muove la macchina da presa e le suggestioni da noir d'antan arrivano dritte dai gioielli neri prodotti da Val Lewton (e l'anagramma dei nomi sulla lavagna da
Rosemary's baby).
La strage familiare, poi, è un pezzo di crudeltà, disumanità e lucida follia che lascia il segno.
Pure il twist finale è raggelante (nonostante mi sia beccato mezzo spoiler da alcuni commenti proprio quì sul Davinotti, visto la genialata di citare alcuni titoli-che non andrebbero mai citati, perchè, appunto, a grosso rischio spoiler- con finale a sorpresa che si collegano a quello di
Shutter Island, che Zender, una volta avvisato, a prontamente cancellato), confodendo ulteriormente le carte, mettendo in crisi lo spettatore e facendo vacillare le sue certezze, in un loop mentale tanto scioccante quanto spiazzante (come la dubbiosa "scelta" in chiusura).
Di Caprio immenso (come tutto il resto del cast, sia artistico che tecnico), la Williams, ai miei occhi, non sarà più la "tenera" e "dolce" Jen di
Dawson's Creek e tutta quell'umidità, quegli internati interrotti (magnifico l'interrogatorio ai due pazienti: una sottospecie di Hannibal Lecter strappafaccia e misogino e una signora della porta accanto uxoricida sulle orme di Lizzy Borden. Così come il discorso sulla violenza, parte integrante e irrinunciabile dell'essere umano, che il direttore della struttura, Ted Levine, sciorina a uno spaventato Di Caprio) e i dedali della follia entrano prepotentemente nelle ossa, così come l'uragano, il faro su cui si vociferano strani e inquietanti esperimenti nazisti di chirurgia sperimentale legati al cervello, le cospirazioni, i complotti, i misteri, le paranoie e la più disarmante alienazione mentale.
Gran thriller classico, di inossidabile robustezza narrativa e picchi di gran cinema. Quando Martin volò sul nido del cuculo.