Incontro con Pupi Avati all'Est film festival

4 Settembre 2008

Domenica 27 Luglio 2008

Tra i momenti di maggior interesse della seconda edizione dell’Est Film Festival di Montefiascone segnaliamo gli incontri con il pubblico di tre importanti autori del cinema italiano.
Riportiamo di seguito i punti salienti dell’incontro con Pupi Avati, dopo la proiezione de Il nascondiglio.

GLI INIZI
Avati racconta che la sua avventura nel cinema inizia circa 40 anni fa in seguito a due fatti: il fallimento del suo sogno di diventare jazzista e la visione folgorante di Fellini 8 ½, “il miglior film sul cinema mai realizzato”.
Aveva anche abbandonato il suo lavoro di rappresentante di prodotti surgelati per la Findus.
Gli iniziali tentativi di entrare in contatto con autori e produttori si rilevarono fallimentari, copioni inviati senza ottenere mai una risposta, solo quella lapidaria e secca di Ennio Flaiano “Non scrivetemi più”; poi finalmente l’entusiasmo e l’incoscienza di un ricco finanziatore bolognese consentirono ad Avati di produrre il suo primo film a Bologna (Balsamus, l'uomo di Satana). Budget ricco, maestranze importate da Roma e l’inesperienza di Pupi e del suo gruppo fecero il resto: un’opera costosissima per i tempi (160 milioni contro i 30 spesi l’anno precedente da Bellocchio per realizzare I pugni in tasca) che fu un clamoroso insuccesso.
Spassossima la ricostruzione del primo giorno di lavorazione fatta da Avati: “La troupe approdata da Roma mi squadrava sospettosa e diffidente, io al centro del set vestito in sahariana come Blasetti con in mente solo la formula motore, ciak, azione. Quando è il momento e dalla bocca mi esce un timoroso ed esitante – ciak !-, l’operatore e l’assistente mi prendono sottobraccio e da parte mi dicono – Pupi, nun te preoccupà, er film te lo famo noi.
Anche il secondo film (Thomas gli indemoniati) segue la formula del precedente: stesso finanziatore, ancora a Bologna, e – drammaticamente - stesso esito; tale è l’insuccesso che Avati è costretto di lì a poco “a fuggire da Bologna con moglie e figli di notte” (ormai è diventato il bersaglio dei crudeli sberleffi dei suoi concittadini). Anche in questo caso Avati ci regala un aneddoto divertente: “Ero in un bar a Bologna in pieno centro, quando qualcuno urla – Avati? Da Roma per il signor Avati al telefono c’è De Laurentis! - Io corro alla cornetta e quello dall’altra parte mi fa - E’ Avati? Pupi Avati? - Io incredulo rispondo di sì, e mi arriva un’enorme pernacchia seguita dallo scoppio di risa di tutto il bar”.
Arrivato a Roma, Avati non riesce a lavorare per ben quattro anni, la fama dei suoi insuccessi iniziali lo perseguita e qualcuno addirittura gli consiglia di cambiare nome: “E’ l’unico modo che ti resta per lavorare”; poi finalmente il caso ci mette lo zampino: Franca Bettoja, moglie di Ugo Tognazzi, infila nella borsa del marito in partenza per Parigi il copione sbagliato, non quello, praticamente già scelto, di Lattuada ma quello de La Mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, terzo film di Avati, che così finalmente inizia la sua carriera romana.

IL GOTICO

Sotto questa definizione Avati fa rientrare quattro suoi film, e cioè: La casa dalle finestre che ridono, L’Arcano incantatore, Zeder ed infine Il nascondiglio.
Questi film sono il frutto di racconti e suggestioni provenienti dalla sua infanzia quando, Avati ricorda, era pratica diffusa narrare ai bambini storie truci intrise di sangue e violenza per tenerli buoni, magari poco prima di metterli a letto in enormi stanze buie: “Io, così come chiunque altro, riempivo quei bui con le mie fantasie”.
Di qui nasce il desiderio di riscoprire quel sentimento, la paura (“l’unico momento in cui siamo completamente presenti a noi stessi, è quando abbiamo paura”), e il piacere di suscitarlo negli spettatori, magari facendo sobbalzare la sala con il semplice scoppio di una lampadina.
La casa dalle finestre che ridono
è appunto l’adattamento cinematografico di una di quelle storie che madre e zie gli raccontavano da bambino. La gestazione del film è preceduta ancora da una cocente delusione: in quell’anno, il 1976, il film Bordella è sequestrato per oscenità dal Tribunale di Latina, così Avati e il fratello, avviliti, tentano una nuova sfida, pensata durante il viaggio in auto dopo aver appreso del sequestro: realizzare il film meno costoso dell’anno, 45 milioni e solo 12 persone impiegate nella lavorazione compresi i due attori principali.
La prima del film è una caporetto: dovrebbe spaventare a morte il pubblico che invece nei momenti clou si abbandona a risa scomposte, ma poi la pellicola finisce per rivelarsi un successo fino a diventare il cult che è oggi. A tal proposito, Avati osserva:” Si è scatenata negli anni una vera e propria ossessione per questo film e i luoghi in cui è stato realizzato, in particolare c’è chi (“un certo Zender, che ringrazio pubblicamente”) ne ha ricercato e identificato le principali location e mi dicono che addirittura si realizzino dei veri e propri pellegrinaggi. Ebbene, questo tipo di manie quando toccano le opere degli altri le giudico patologiche, ma quando mi riguardano non posso fare altro che apprezzarle!”

IL PERTUGIO

Avati ricostruisce la realizzazione dei suoi due film sul Medioevo: I Cavalieri che fecero l’impresa, colossale coproduzione la cui lavorazione venne funestata da innumerevoli incidenti (perfino episodi di droga) e che non incassò nemmeno un terzo di quanto fu speso per realizzarla, e Magnificat, pellicola meno ambiziosa, portata a termine senza alcun intoppo nella tranquillità umbra di Todi, che ebbe un buon successo.
Dice Avati che questo film ha una finalità didattica molto forte, riprendendo lo spirito rosselliniano e degli analisti francesi, raccontando 6/7 vicende umane nei dintorni di un’abbazia durante i riti pasquali, e cioè in rapporto al sacro, dove perfino gli oggetti del lavoro quotidiano vengono benedetti prima di essere usati (questa visione del sacro interessa Avati in contrasto con la visione consumistica moderna). Da qui Avati prende lo spunto per una breve ma intensa riflessione sul rapporto con Dio: “Nella religiosità contadina – racconta – era radicata l’idea che i morti potessero entrare in contatto con i vivi attraverso un segno:  bastava avere la pazienza di aspettare e la capacità di interpretare la realtà (“quello che hai sentito, è il nonno morto che viene a tirarti i piedi di notte” ): quel pertugio era lasciato aperto da Dio perché quelli di là ci comunicassero la loro raggiunta serenità”.

Avati ricorda come in Magnificat il principe, uno dei protagonisti, attenda invano un segnale da un Dio quanto mai silenzioso, ma quando quel segno finalmente arriva, lui non può coglierlo perché se ne è già andato, non ha avuto la pazienza di aspettare. A questo punto conclude con un nuovo episodio della sua vita e ricorda Ferdinando Orlandi, amico di infanzia di Minerbio e caratterista in molti suoi film, il quale ormai con molti bypass al cuore, un giorno gli disse: ” Se mi dovesse succedere, tu stai attento perché io vengo e ti faccio un segno, non so cosa mi permetteranno di là, ma tu stai attento”. Avati ricorda che da piccolo le nonne lo dicevano a lui, in una sorta di patto. Chiude dicendo che alla fine il segno da parte del suo amico non è arrivato per quanto lui sia stato attento, ma gli resta il dubbio di non aver saputo aspettare a sufficienza.

FEDERICO FELLINI
Avati chiude l’incontro con il pubblico parlando delle tensione psicologica tipica dei registi alle prese con le proprie opere, in particolare con un ricordo di Federico Fellini, di cui fu buon amico negli ultimi anni della sua vita. Fu infatti invitato da Fellini ad assistere alla visione privata dei suoi ultimi 3 film, tra cui la copia lavoro de La voce della luna.
Ovviamente la copia non era quella definitiva: erano infatti presenti refusi del montaggio, code nere, doppiaggio imperfetto, battute incomplete...
Avati rievoca: “Nella piccola sala in via Margutta eravamo in non più di dieci; Fellini passa a salutarci e se ne va, io mi siedo tra Sergio Zavoli e Giulietta Masina. Inizia la proiezione, passano non più di 10 minuti e il silenzio è rotto da un debole trillo: la Masina si alza e risponde dicendo sottovoce – Si, si, piace, piace. Passano altri dieci minuti e di nuovo quello strano squillo: ancora la Masina va al telefono e ribadisce – Si, lì hanno riso, sì, lì, proprio in quel punto (alla fine lo farà per tre volte durante la proiezione). Dall’altra parte della cornetta un Fellini, emozionato e timoroso come un principiante, – conclude Avati – fremeva per conoscere le nostre reazioni, assolutamente inconsapevole della sudditanza psicologica che nutrivamo nei suoi riguardi e che ci avrebbe fatto gridare al capolavoro anche di fronte a uno schermo nero. Ebbene, sappiate che quella è la condizione di ogni regista in qualsiasi momento della sua carriera ”.

FOTO - Nota di Zender: Nelle foto si vede Dillinger che va da Avati a chiedere (nonostante fosse stato consigliato da noi in senso contrario visto che sapevamo già la risposta che Avati avrebbe dato) dove possa essere la chiesetta di cui mostra la foto (quella di L’Arcano incantatore, che all'epoca non riuscivamo assolutamente a trovare). Avati, appena vista la foto, esclama guardando in faccia Dillinger: "Tu sei Zender!" (ricordando quanto già gli avessimo chiesto dove fosse la chiesetta). E qui la leggenda vuole che Dillinger abbia risposto, conscio della sua posizione nell'organigramma: "No, sono solo un suo galoppino".


ARTICOLO INSERITO DALLA BENEMERITA MARGE

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