Note: Aka "Rasciomon". Rifatto in USA come "L'oltraggio" con Paul Newman. Leone d'oro al miglior film alla 14ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Vincitore del leone d'oro a Venezia nel 1951, è forse il capolavoro assoluto di Akira Kurosawa. Un bandito uccide un samurai e violenta sua moglie. Di questo fatto vengono proposte 3 differenti versioni raccontate dai 3 protagonisti (il samurai parla per mezzo di una medium). A seconda della versione il fatto assume apetti diversi e in contrasto tra di loro. Sembra che ovunque regni la menzogna e che niente sia come può apparire in un primo momento. Visione pessimistica sull'essere "uomo" parzialmente riscattata da un finale di speranza.
Ottimo film che elabora una vicenda (della quale si hanno varie prospettive, a seconda di chi stia narrando) la quale è una vivida metàfora dei rapporti interpersonali che tutti noi abbiamo quotidianamente e delle dinamiche, talora sorprendenti, che da essi scaturiscono. Arnoldo Foà doppia il protagonista. Con un po' di pazienza, ma è da vedere.
Tre diverse versioni dello stesso fatto (l'uccisione di un samurai e la
violenza sulla moglie) date dal bandito, dalla moglie stessa e dal morto, tramite una medium. Ma non è finita lì... Mentre un suggestivo bolero scandisce il tempo, cambia quindi la nostra visuale, il nostro stato d'animo, ogni tesi precostituita viene smontata e ricomposta. Lento ma coinvolgente. Colpiscono l'espressività dei primi piani e le parole taglienti utilizzate in ogni racconto. Il doppiaggio italiano, fatto male e con alcune voci poco credibili, lo penalizza.
Vari personaggi raccontano una storia di cui sono stati testimoni, ma lo fanno tutti in modo assolutamente diverso. Chi mente e chi dice la verità? Straordinario apologo sulla relatività della verità e delle cose che ci circondano, le quali possono essere viste da infiniti punti di vista e angolature il che, quasi sempre, impedisce di arrivare ad una soluzione dogmatica, assoluta e condivisa. Ancora oggi attualissimo. Magistrale e coinvolgente la regia di Kurosawa. È uno dei capolavori assoluti della storia del cinema.
Un delitto raccontato dai testimoni in diverse versioni. Capolavoro assoluto della storia del cinema, con un commovente bianco e nero che accompagna la storia che il relativismo degli sguardi e delle persone trasforma ogni volta. Un film straordinario che fa da ponte tra la sensibilità visiva del muto e la modernità di una narrazione virtuale e cangiante, tra la tradizione grottesca nipponica e la drammaticità tragica nostrana. Un'opera che va al di là di ogni classificazione perché ti incanta e dopo la fine ti stordisce.
Sferzante e critico apologo sull'uomo, sul suo gretto, perverso modo di intendere la vita e la morte, sulla propria perseverante incapacità di affrontare un'ineluttabile verità. Kurosawa incanta come sempre; soffermarsi sull'efficacia della narrazione sarebbe superfluo. Basti osservare la profonda caratterizzazione dei personaggi, l'efficacia del montaggio coordinato al racconto dei comprimari, il suo tocco delicato e svelatore di ciò che invece le loro menzogne vorrebbero celare, per comprenderne lo straordinario valore. Magico.
Straordinaria apologia e nel contempo critica, sulla interpretabilità della verità. Ognuno dei tre protagonisti dello stesso tragico, delittuoso episodio racconta il medesimo in tre versioni diverse, ognuna più o meno credibile, ognuna mostrata ai nostri occhi come fatto certo: sta a noi giudicare. Impresa non facile, anche perché il film ha alcuni virtuosismi di pura regia (molti dei quali hanno fatto scuola) da stropicciarsi gli occhi, che tendono un po' a "distrarre" con la loro abbacinante bellezza. Imprescindibile, magnifico, immortale.
Una storia, tre protagonisti e quattro versioni differenti: dov'è la verità? E proprio nel non rispondere a questa domanda sta la grandezza del gioello di Kurosawa. Che cos'è, infatti, la verità? Chi la possiede? E cos'è l'uomo, con le sue meschinità e i soui slanci? Alcuni movimenti di camera sono poi veramente la base dell'arte cinematografica (come la sequenza della camminata del boscaiolo o la camera che gira intorno alla testa della donna e finisce per inquadrare lo sguardo del marito). Magico, profondo e imprescindibile.
Grande film sul tema del linguaggio come generatore di realtà e sulla relatività come presupposto di qualsiasi fatto o azione, il cui finaletto moralista (l'unica vera nota stonata della pellicola) non riesce a stemperarne il pessimismo (che abbraccia un discorso generale: tutti mentono, essenzialmente con lo scopo di rafforzare la propria immagine). Tutto ciò è supportato da un'abile regia, in grado di vivacizzare il tutto con trovate originali e piacevoli virtuosismi. Impostazione per l'epoca rivoluzionaria e infatti imitatissima in seguito.
Uno dei capolavori del cinema mondiale, magistralmente diretto da Akira Kurosawa è una vicenda narrata in modo diverso dai tre personaggi principali. Il regista ne fa un racconto sulla verità e le diverse prospettive della stessa con una narrazione dal forte potere simbolico e dal ritmo cadenzato che necessita di una certa attenzione che ripaga alla fine lo spettatore. Ottima la prova del cast.
Gran bel film (a basso costo direi) tra una casa diroccata nella tempesta e una foresta; ottimi l'atmosfera generale ed il bianco e nero. Tutto comincia con una folata di vento che scopre il volto di una donna (gran scena). Nella storia si evidenzia come ognuno abbia la sua verità o peggio ancora la sua menzogna: viene infatti chiamato a rispondere anche il soprannaturale (c'è chi ci crede). Un film pessimista (in fondo dice delle verità sulla mancanza di una verità assoluta) che riesce nel suo intento, lasciando un senso di sconforto.
MEMORABILE: Gli uomini sono tutti deboli. Per questo debbono mentire...
Un bandito assale una coppia, uccide l'uomo e violenta la donna. Ognuno di loro, anche il morto evocato da una medium, racconta la sua verità sull'episodio. Un casuale testimone ne fornirà un'altra diversa versione. Straordinaria riflessione sulla relatività della percezione, sull'impossibilità di conoscere la realtà oggettiva in quanto filtrata e deformata dalle pulsioni umane. Uno dei capolavori della cinematografia mondiale, un racconto ad incastro in cui tutti gli elementi rasentano la perfezione. Superbo Mifune, gigantesco Kurosawa.
Impossibile non valutare questo film come un capolavoro, anche se rispetto al cinema moderno si denota una certa lentezza nella narrazione dovuta al soffermarsi sui dettagli, i primi piani e gli epici scontri tra il bandito e il samurai. Una cura maniacale è stata riversata anche nei dialoghi, dove le sfumature tra le diverse versioni narrate dell'episodio principale diventano più evidenti. Capolavoro, anche se d'altri tempi...
Kurosawa si rifà all'esordio dello scrittore Akutagawa per mettere in scena un film sulla visione e ricostruzione della realtà, che nella sua natura espositiva è ancorata alla soggettività emotiva del narratore, tema immortale (sempre al centro dei processi e film di Legge) e con deliziosa ambientazione heian, con uno stile che pesca dal muto (notevole il silenzio nei combattimenti) ma allo stesso tempo rivoluzionario, che rende noto il regista anche al di là del continente, insieme all'attore Toshiro Mifune (straordinario); Un chiaro classico.
Tre sono i personaggi, tre i simboli, tre le storie, quattro le verità. La verità come la menzogna; la menzogna fa semplicemente parte del destino; il destino è la vita che scorre, ed è assimilabile e riproducibile da numerosi punti di vista, dettati da istinto, pulsioni primordiali, umane, persino ultraterrene. Narrazione ad incastri alternati che sublima un assunto universale e apologante che riflette sulle effimere certezze dell’uomo e sottolinea i deboli ancoraggi ad un mondo, una società (una verità) di persone nascoste nelle loro debolezze.
Da un racconto giapponese ambientato nel periodo Heian, Kurosawa realizza un'opera eccelsa che coniuga intensità emotiva e cinema d'arte visiva. Con una fotografia in bianco e nero eccellente e una serie di personaggi ottimamente interpretati, il regista nipponico manda un messaggio diretto all'umana coscienza di ogni essere vivente: nessuno è esente dall'egoismo. La musica e i momenti di silenzio si fondono in maniera sublime e perfetta. Grande esempio di cinema orientale per eccellenza, giustamente premiato e mai dimenticato.
Film crudele e spietato sulla miseria umana che dona un barlume di speranza solo negli ultimi due minuti finali. Ottime le interpretazioni, quasi teatrali (il "tribunale" sembra quasi un palcoscenico). Rivoluzionario per l'epoca mostrare cinematograficamente le versioni false della storia esattamente come quella vera. Il film è certamente invecchiato e incappa a volte in cali di ritmo, ma rimane un'opera potente. Da vedere in giapponese coi sottotitoli.
MEMORABILE: Il bandito che schiaccia gli insetti prima di attaccare; I dialoghi finali.
A cavalcioni del crinale che separa i finanche profondi filosofismi cinematografici attorno all'esistenza umana e le condizioni di verità dell'esistenza umana stessa si erge Rashomon, un'opera così definitiva da far sembrare le Philosophische Untersuchungen wittgensteiniane un prontuario delle giovani marmotte. Passano le generazioni, la vita riemerge dalla morte, l'uomo ricade perennemente sempre negli stessi errori; ma Dio, Morale, Verità, Obiettività rimangono al loro posto, in un immobile iperuranio non interessato dal nostro spaziotempo.
Apertura sotto una pioggia battente, presso un sito in rovina (la porta del titolo): clima psichico spettrale, saturo di rimandi al possibile indeterminato. Poi il cortocircuito del racconto, dove il reale è un uccello che non canta e la verità un'ombra sfuggente, soprattutto illusoria - nel diabolico (e caleidoscopico) tessuto delle apparenze. Personaggi forgiati ad alte temperature emotive in un altoforno da alchimie prossime all'imperscrutabile. Infine ci si chiede se la perfezione formale nichilista può, paradossalmente, lasciare un filo di speranza.
Racconto per immagini di una vicenda inesistente, rimasuglio di diversi punti di vista volti a salvare l'onore individuale, frutto di una mescolanza fra realtà fenomenica e falsità dialettica, redatta e montata secondo un'ottima regia e una fotografia impeccabile, bella fino all'esaustivo; piani di inquadratura fissi che avvicinano e fanno circumnavigare il soggetto allo spettatore, come una sorta di passo veloce verso l'inesplicabilità della vicenda. Eccesiva e non gradita però la pedagogia pomposa del film, che avrebbe potuto esaltarsi meglio se meno auto-celebrativo.
L'omicidio di un samurai viene raccontato a diverso titolo dai protagonisti della vicenda. Kurosawa inscena l'egoismo umano con una personale vena pessimistica e si mantiene ancora moderno per l'analisi da diverse prospettive. Con un budget ridotto vengono sfruttati gli agenti atmosferici e la fotografia superba nei giochi luce/ombra. Mifune è talmente espressivo che non fa differenza se sia legato o meno. Forse la conclusione è un po' buonista, stemperando il clima nichilista dell’episodio.
MEMORABILE: Il combattimento nel bosco; La pioggia torrenziale; La confessione della donna.
Altro straordinario pezzo di bravura di Akira Kurosawa, in un autentico apologo sul concetto di verità. La trama non è particolarmente complessa, si tratta di uno stupro/omicidio raccontato da persone che danno tutte la loro versione. A chi credere? Chi mente? E se nessuno in fin dei conti mentisse? Sono tante le domande che questo film suscita. Ottimo il cast, un po' sopra le righe Machiko Kyô, ma può starci visto il periodo. Regia efficacissima e personale di un regista fin troppo poco citato. Finale splendido, se non si fa caso al pianto del bambino. Da vedere e rivedere.
Buono ma non un capolavoro; il regista aveva già diretto film migliori con protagonisti i suoi due attori feticcio Toshiro Mifune e Takashi Shimura, film che però vennero distribuiti in Italia parecchio in ritardo. Il finale purtroppo rovina completamente la buona rielaborazione che il regista aveva proposto del racconto di Akutagawa. Quattro persone, persino il morto tramite una sensitiva, raccontano bugie per salvaguardare il proprio onore. Finale incongruo.
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Visionato oggi in pellicola.
La copia italiana riporta tutti i nomi dei crediti, a partire dal titolo, in versione italianizzata.
Così nei titoli di testa troviamo come titolo Rasciomon, e come regista Achira Curosaua.
Nella locandina (esposta fuori dal cinema dove ho visionato il film) sono rispettati i nomi originali, ma non so se si tratta di quella esposta all'epoca nelle sale (tra l'altro si tratta della stessa che compare sul Davinotti)
CuriositàZender • 6/10/10 08:11 Capo scrivano - 47782 interventi
Sì, quella che vedi a sinistra è quella utilizzata al tempo nei cinema. Peccato non averne una coi titoli italianizzati, sarebbe stupenda.
Addirittura "Rasciomon" andrebbe messo come titolo in scheda, perché è con tale titolazione che passò il visto di censura e che uscì nelle sale. Un manifesto d'epoca