Interessantissimo soprattutto sul piano registico. Tutto girato in una stanza, il rapporto tra la fashion-designer Petra Von Kant, Marlene e Karin. I quadri, i manichini, tutto rende la scena mai statica seppur la camera agisca con lunghe sequenze e profonde inquadrature. Certo non il film più illuminante di Fassbinder, ma uno dei meno conosciuti, tratta a fondo il tema dell'ossessione, molto caro a tanto cinema (specie d'autore).
Una stilista, amata dalla propria segretaria, si innamora di un’altra donna: ne nasce una semplice (come trama) e complessa (per i sentimenti in campo) vicenda, tutta all’interno della casa-atelier della stilista stessa. Il film, tratto da un’opera teatrale dello stesso Fassbinder, è claustrofobicamente chiuso nella stessa stanza e insistentemente pervaso da parole e musica. Un film impegnativo da seguire, ma di intense emozioni per parlare non tanto dell’amore, quanto dei rapporti di potere e dipendenza che l’amore innesca. Fassbinderiano.
Melodramma lucido e spietato sull’amore inteso come strumento di potere e controllo sull’altro con tutto il suo carico gravido di conseguenze negative. Nella prima parte risulta un filino meno riuscito e coinvolgente di altre opere del regista tedesco, tuttavia nella seconda parte ingrana e raggiunge risultati ragguardevoli. Splendide tutte le attrici, mirabilmente dirette da Fassbinder la cui mdp (grazie all’operatore Ballhaus) si muove sinuosamente negli spazi angusti di un unico ambiente. Cinema teatrale, impegnato e molto impegnativo (quindi non per tutti)
Kammerspiel in cinque atti che attesta l’assoluta padronanza acquisita da Fassbinder nel gestire lo spazio drammatico lavorando sull’efficacia dei dialoghi e sbizzarrendosi con la mdp in lunghi piani sequenza, carrellate, panoramiche, lente zoomate. Al centro, ancora rapporti di potere dettati dall’amour fou e da una dialettica servo-padrone certo riconducibile alle logiche del maschio dominatore – pur non fisicamente presenti, sono gli uomini a condizionare questa vicenda di sole donne - e del materialismo borghese. Il regista fa una comparsa lampo, ritratto in foto su un giornale.
MEMORABILE: Le crisi isteriche della Carstensen; la presenza muta e servile della Herrmann.
Chiaramente tratto da una pièce teatrale (dello stesso Fassbinder, tra l'altro), l'autore ne conserva l'unità di luogo e la logorrea, impegnandosi in una continua sfida geometrica tesa a valorizzare la ponderata scenografia e a donare dinamicità ad un'altrimenti sterile rappresentazione. Preziosa la metafora degli onnipresenti specchi, che contribuiscono a scandagliare nel problematico triangolo costituito dalla protagonista disillusa, dalla segretaria complessata e dalla giovane rampante. Un rapporto destinato a mietere contrappassi. ***
Una delle opere più impervie di Fassbinder. La derivazione dal suo omonimo testo teatrale (di cui per inciso vien modificato in senso pessimistico il finale) vien "corretta" da una serie di virtuosismi registici, in grado di utilizzare con raffinatezza lo spazio (specchi, manichini, telefono) in funzione drammatica. Le tematiche cardine del suo cinema son tutte presenti e fin troppo esplicitate (i rapporti sentimentali fondati sul dominio e la sopraffazione in primis), tuttavia l'insieme è ancora troppo cerebralmente brechtiano. Il tris d'attrici è servito.
Esteticamente ineccepibile, ma eccessivamente teatrale, basato troppo sui dialoghi che risultano a tratti estenuanti. Se ci si arma di pazienza però si entrerà appieno nella storia, apprezzandone tanto i contenuti quanto i virtuosismi di regia. La recitazione delle protagoniste è straordinaria anche se i dialoghi sono volutamente cadenzati; le scenografie sono un vanto per gli occhi. La pellicola si rivela molto lentamente agli spettatori. Intenso, impegnativo, ipnotico.
Sulfureo e magmatico melò fassbinderiano che da pièce teatrale diviene un claustrofobico kammerspiel ammantato da sinuosi movimenti di macchina e impreziosito da attrici in stato di grazia. Puro pathos impresso su celluloide, verboso, depressivo, dolente, radicale, stillicida: è la rigorosa e passionale visione del maestro tedesco sui rapporti d’amore-odio e sulle lotte continue, i moti dell’anima, le prevaricazioni tra individui. Un dilaniante gioco di specchi che sdoppia e nasconde; abietto, tragico e implorante come Mida con Bacco. Sublime.
MEMORABILE: Petra che, in ginocchio, implora ai piedi di Karin prima della partenza; Petra da sola che, in ginocchio, si dispera.
Quasi una versione sentimentale e gridata di Eva contro Eva, un melodramma da camera con una regia dall'impianto fortemente teatraleggiante ma al tempo stesso sapientissima nell'utilizzo della mpd. Il primo tempo possiede una finezza psicologica sopraffina, in seguito si cade in eccessi e legge del taglione in rosa, ma il beffardo finale ristabilisce l'equilibrio. Ottima la protagonista, atmosfera particolarissima, qualche sfumatura (la bambola, il personaggio della figlia) che colpisce nel segno. Pur coi suoi alti e bassi un buon film.
Se Le lacrime amare di Petra von Kant fosse una legge, sarebbe spietata, disumana. Al principio di apertura generale, Petra lascerebbe seguire una serie di commi, ciascuno eccezione del precedente. Sarebbe in apparenza un abile legislatore, ma in realtà dissiperebbe parole, con incoerenza. Lei è serva, ma anche padrona. Lei è vittima, ma anche carnefice. Brancicando nel buio, è frangiflutti ormai sventrato e battigia battuta e ribattuta. E in un tale sfacelo, ti chiedi se anche tu sei uno sfacelo. Se anche tu non sei vittima, carnefice.
La potenza dell'opera è indubbia, ma rimane il sospetto che fosse più adatta alla rappresentazione teatrale piuttosto che al cinema come mezzo espressivo. Non che, di per sé, il film non abbia tratti eccezionali in quanto tale: la caratterizzazione perfetta dei personaggi, la fotografia accesissima, certi lenti movimenti di macchina... Eppure è davvero difficile affrontare la visione tutta d'un fiato, perché soprattutto la prima parte è colma di dialoghi che non portano a nulla se non alla costruzione dei personaggi. In ogni caso da vedere.
MEMORABILE: Petra che si rivolta contro le tre donne, quasi insostenibile da vedere per la crudezza della situazione.
Le lacrime amare di Petra Von Kant sono un distillato di pura poesia fassbinderiana. Un kammerspiel intriso di dialoghi fitti e profondi che scandagliano tutto lo scibile dei sentimenti umani. Un'opera teatrale che diventa cinema e che è lì a spiegarci come l'essere umano si pieghi all'illogica dell'amore, arrivando a privarsi di ogni dignità. Ci si confonde negli sguardi allucinati e allucinanti di chi mendica un sentimento dimenticandosi di se stesso e del resto del mondo. Un capolavoro senza tempo capace come pochi di evidenziare le debolezze di chi ama senza riserve.
Nauseata dagli uomini, una stilista affermata che vive in simbiosi con una assistente/schiava silenziosa si innamora di una ragazza incostante... Nel mettere in scena una sua pièce, Fassbinder ne mantiene rigorosamente il carattere teatrale nell'ambientazione e nello stile di recitazione, sfruttando però anche tutte le potenzialità offerte dalla cinepresa per indugiare su volti, corpi, oggetti, arredi. Il risultato è uno splendido melodramma da camera tutto al femminile, algido e crudele, entomologico nel mettere a nudo sentimenti ed emozioni. Visione impegnativa ma appagante.
MEMORABILE: Petra in abito verde con rosa rossa al collo; Nel finale, Petra assiste sul letto al riempimento della valigia posta sul pavimento.
Attraverso uno spietato un gioco di potere (sociale, culturale e sentimentale) si celebra l’autorità femminile ma anche la sua decadenza. Le pretese nevrotiche che Fassbinder inscena nel suo melodramma sono radicate su basi prettamente emotive, per questo appaiono algide ma al tempo stesso incandescenti. Esteticamente raffinatissimo, diretto senza un solo passo falso e con interpretazioni che sfiorano la perfezione. Gli sguardi della Carstensen lacerano dentro. Un capolavoro.
Fassbinder mette in scena un suo stesso lavoro teatrale, ne mantiene tale impianto e gira un film sicuramente non potabile per tutti ma che riveste un fascino innegabile per la straordinaria caratterizzazione psicologica della protagonista e per il grande interesse generato da tutti i ruoli di contorno, non ultimo quello della aiutante muta. La fotografia dà molta attenzione all'arredamento e ai suoi particolari, alimentando una certa claustrofobia ben congegnata da Fassbinder, che non sarà maestro dell'intrattenimento, ma per la regia aveva davvero qualcosa da dire.
Stilista maltratta la domestica mentre vive una crisi amorosa. L'impianto teatrale è concentrato sui personaggi per raccontare dapprima una sconfitta matrimoniale. I dialoghi, discorsivi nella prima parte, divengono ficcanti e crudeli in un crescendo disperato, con l’acme in chiusura. Fassbinder fa dimenticare che ci si trovi in una sola stanza e i movimenti lenti della mdp danno sempre ritmo. Grandi interpretazioni: Carstensen solida, Hermann di notevole presenza nonostante il silenzio, Schygulla esprime il ritratto di una gioventù acerba e vuota.
MEMORABILE: Marlene in attesa fuori dalla porta; I vestiti della cena; L’amante di colore; Disperata sul tappeto.
È affollato di fantasmi e passanti, è arredato come un atelier ma vissuto come una prigione; è il mondo di Petra, è il suo appartamento, un nido dove tramutarsi in amanti, martiri e carnefici. Emozionante gioco di potere, o meglio gioco di ruolo, ma soprattutto cupa catabasi d’amour fou magnificamente allestita dallo sguardo soavemente impietoso di un Fassbinder in stato di grazia. Margit Carstensen ipnotizzante.
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io posseggo l'ottimo dvd francese della Carlotta, ovviamente con sub in francese. ma esistono quelli italiani quindi direi che grossi problemi non ce ne siano :)