Brutta toppata per un regista del calibro di Ruben che, all'inizio, sembrava promettere bene.
I ricordi cancellati della Moore riguardo a suo figlio (la fotografia, l'album, le videocassette, addirittura l'incidente aereo in cui il figlio morì) e le amnesie (la Volvo parcheggiata, il caffè) che dava il sentore di cospirazioni e paranoie alla ultracorpi, vieppiù nell'atmosfera autunnale newyorkese così simile a quella de
Il patrigno che sembrava un rubeniano valore aggiunto.
Ma le buone intenzioni si vanificano quasi subito (dopo la scoperta dei disegni infantili nascosti dietro alla parete della camera, velato omaggio argentiano?) e il film scivola presto nella confusione abborracciata e nella noia, per poi sprofondare nel ridicolo (in)volontario.
Continue fughe da una parte all'altra della città, alieni tanto ridicoli quanto improbabili (terrificante il make up in CG, gli esilaranti risucchi stile Rotowash, il sentore di minaccia extraterrestre che non si avverte nemmeno per un secondo, il demenziale movente alieno sugli esperimenti edipici), fino allo "scontro" tra la Moore (che per tutto il film continua a ripetere, fino allo sfinimento, "Dov'è mio figlio?", "Ridatemi mio figlio", in una lagna materna che diventa insopportabile) e l'alieno ben poco carismatico (il suo risucchio finale, con frase aggiuntiva e talmente idiota da vederlo per crederci).
Non manca uno sfacciato e insensato happy end da bestemmie, che rasenta la nausea zuccherosa.
Non bastano gli agenti governativi a ricordare
Dreamscape, così come non basta la bravura del sempre ottimo Gary Sinise e la suggestiva fotografia di Anastas N. Michos per salvare questo pasticcio che manda in vacca i buoni propositi iniziali.
Resta il rammarico, a fine visione, di credere che il regista de
L'innocenza del diavolo non abiti più qui e il titolo del film potrebbe essere un buon monito per scordarsi di questo pastrocchio indigesto.