Vuole due madri, Steve, per contenere la propria diversità, sovvertire gli schemi e dare spazio al tumulto emozionale; dilatare le immagini a misura della propria interiorità. E il film di Xavier Dolan è così: complesso, appassionato dei suoi personaggi, innamorato delle sue musiche, dei ralenti infiniti che elevano il quotidiano ad un'epica del mondo. È un film bellissimo, Mommy, che fa piangere, sorridere, sognare; palpita di sincerità riconquistata, precipita nel reale carico di disillusione, ma pronto a rintracciare la speranza nell'ambiguità di ogni intento.
È innegabile il talento di Dolan: grandi le tecniche di ripresa, le luci, la scelta del formato fotografico (non dispersivo) che costringe ai primi piani ma permette anche campi lunghi e quando non basta allarga con disinvoltura. Più discutibile il soggetto, o meglio come viene trattato. Delle due disabilità ho preferito quella di Kyla, vittima di un marito freddo e quadrato come i suoi computer; più vera, forse perché in secondo piano. Con Steve invece si gioca sporco, mischiando il disturbo mentale con una sorta di anarcoide libertà. Ottime le attrici.
MEMORABILE: La scelta (non memorabile, ma astuta) e l'inserimento delle musiche.
Talento precocissimo (25 anni e sei lavori all'attivo), Dolan racconta una storia non nuova (madre coraggio, figlio pazzo e vicina in cerca di liberazione) con stile personalissimo. Schermo occupato solo nel terzo centrale, straniamento nei momenti clou tra musica e immagine. Un triangolo elettivo guidato dal daimon della pazzia governato da un regista che dirige gli attori in maniera a dir poco sublime. Dolan genio? Non so dire. Talento maturo senza dubbio. Empatico e capace di commuovere con onestà.
MEMORABILE: Il karaoke con "Vivo per lei"; La passeggiata in longboard tra figlio e le due donne al seguito.
Rispetto all'altro Dolan da me visionato (J'ai tué ma mere) la differenza la si coglie già leggendo i due titoli. Mommy è stile fine a se stesso, con qualche vano tentativo di originalità (l'inutile utilizzo del formato 1:1) e una manciata di inutili scene-videoclip che non sarebbero dispiaciute al primo Adrian Lyne. Durata eccessiva, ma il film regge discretamente; almeno fino a pochi minuti dalla fine, prima che la sterzata patetico-ricattatoria faccia crollare la torre. A salvare il tutto l'ottimo cast e almeno una scena geniale.
MEMORABILE: La "scena geniale": la balbuziente che con una mossa improvvisa fa gelare il sangue del giovane ribelle un po' pazzerello.
Dolan torna ad indagare su un travagliatissimo e dolente rapporto madre-figlio e lo fa attraverso il suo stile spigliato e talentuoso che alterna, sia sotto il profilo tecnico che narrativo, momenti di calma ad accelerazioni improvvise. E dipinge una realtà claustrofobica, sublimata dall'atipico formato inferiore anche al 4:3, che lo è a tal punto che solo nella fantasia o in un raro momento di spensierata felicità è possibile pensare di uscirne e sfociare in un largo 16:9. Ottimi i tre protagonisti.
Il tema del rapporto madre-figlio è caro a Dolan, che questa volta esce però dallo schermo, dove non compare come interprete. Resta il suo sguardo di straordinaria sensibilità, che se poteva essere più facile nel personalissimo J'ai tué ma Mère qui ha il merito di indagare una situazione umana difficile e articolata, con la consueta delicatezza e originalità. Restano anche l'ottima Dorval, le scelte musicali dirompenti, il taglio giovanilistico ma insieme autorevole e anche l'istrionismo di alcune scelte forse un po' ardite (il formato 1:1).
Sincero e spietato, con finale durissimo e commovente. Una descrizione dei gironi infernali dell'assistenza psichiatrica agli adolescenti; ma anche di come amore e vitalità possano trasformarsi, tragicamente, nel loro contrario. I diversi, stritolati, comunicano e possono crescere; ma non ce la fanno. I sogni svaniscono ben prima dell'alba. Tre interpreti in gara di bravura, belle immagini, sapiente alternanza di toni, nessuna concessione allo spettatore, né al politicamente corretto. Da vedere, se si è abbastanza forti.
Un ragazzetto disturbato e aggressivo trova nella figura di Kyla, anch'essa con problemi, un'alternativa affettiva rispetto al conflitto con la madre. Da qui un'alternanza di stati d'animo diametralmente opposti tra violenza e tenerezza, con qualche scivolone nel sentimentalistico. Tecnica notevole, ottima fotografia e sceneggiatura solida; perde però ritmo via via, in ralenti inutili, "smarmellamenti" e lungaggini sproporzionate. Attori nella parte ma con qualche eccesso, musica adatta alla trama e alle situazioni.
MEMORABILE: L'ambiguità affettiva della figura materna.
Nei meandri della famiglia disadattata, tra compulsioni patologiche e vicini problematici si dipana una storia che ha l’amore come fulcro. Poco originale, ma il tocco di Dolan regala numerose chiavi di lettura e di stile. Fa dimenticare la visione ridotta e fa scorrere la durata come un soffio infarcendo di dramma, gioia, commozione, la vita vissuta. Elabora e rielabora a piacimento, dando lustro agli attori, giostrando la mannaia con delicatezza. Nei ralenti ricorda Paranoid Park, le musiche sono poco ricercate e dal finale mi aspettavo di più.
Non è simpatica la protagonista del film: scombinata, aggressiva, cinica quando fa battute sul ragazzino rimasto ustionato. Né è possibile provare empatia verso il figlio adolescente, strafottente, soggetto a crisi d'ira violente, legato alla madre da un rapporto dal sapore edipico. Eppure nel corso della vicenda Dolan riesce a farci provare compassione per questi due "disadattati" - così li definisce un loro vicino di casa - e a sperare che possano salvarsi dalla deriva. Assai funzionale il formato stretto che accentua la sensazione di claustrofobia, con rare e significative aperture.
MEMORABILE: L'inserto a pieno schermo sul possibile futuro; La telefonata in camicia di forza; il bel finale ambiguo
Dolan è giovane e si vede: pieno di idee, di voglia di fare, mette su uno spettacolo da veri amanti del cinema. Quindi grandi emozioni (posticce e non, ma che importa) e ogni tipo di trucco registico per mantenere viva l'attenzione. Il bello è che viene fuori un film potenzialmente popolare ma dal piacevole retrogusto snob, che riesce sempre a camminare sul filo del rasoio fra capolavoro e boiata dettata dal "troppo".
MEMORABILE: Il fast forward sul futuro del figlio, "vivo per lei".
È difficile creare empatia per personaggi che sono (volutamente) sgradevoli e che non fanno nulla per accattivarsi l'attenzione degli spettatori; Dolan ci riesce mostrandone l'intima fragilità umana e il costante bisogno di appoggiarsi l'un l'altro continuamente. Nulla di nuovo ma questo approccio alla storia è svolto benissimo, grazie anche all'artificio dell'inquadratura che tuttavia rischia a tratti di diventare esercizio di stile esiziale. Un film riuscito anche grazie ad un ottimo terzetto di attori assai aderenti ai propri personaggi.
Arduo giudicare Mommy senza farsi prendere dalla bipolare furia giovanile di Dolan, col rischio di aderirvi partigianamente o - al contrario (con però analoghe basi "censorie") - di rifiutare senza se e senza ma il suo narcisismo vitalistico ma respingente. Fatto sta che, dopo averne fatto sedimentare la visione, del film restano la inconsapevole febbrilità cassavetesiana (ovviamente più furbetta e meno meditata) e, sul piano narrativo, la geniale intuizione di utilizzare la distruttiva relazione tra Die e Steve come terapeutica per l'"intrusa" borghese Kyla.
MEMORABILE: La prova dei tre protagonisti: Anne Dorval, Antoine Olivier Pilon e Suzanne Clement; Il paradigmatico (nel bene e nel male) karaoke di "Vivo per lei".
Bello e particolare: dotato di una sua precisa personalità che va ben oltre la particolarità del formato di visualizzazione e che sa dosare benissimo le varie componenti filmiche (attori, ambiente, fotografia e soprattutto sonoro). Il classico binomio viscerale tra madre e figlio ribelle mette il turbo quando interviene la figura della vicina di casa e assicura due terzi di forte passione, culminanti in quello spezzone di sogno. Non tutto torna alla perfezione ma questo 25enne regista ci sa fare.
Un dramma familiare con inquadrature tendenti al claustrofobico che narra le vicende di una madre non proprio esemplare e un figlio con disturbi della personalità. La narrazione è ben realizzata, con interpreti azzeccati e accompagnamento musicale a tema. I momenti drammatici sovrastano quelli felici e il formato delle inquadrature lo dimostra. Duro ma efficace.
Pellicola amara ben riuscita che cattura lo spettatore fin dalle prime battute. L'inquadratura "soffocante" è un abile gesto che rende ancora meglio l'idea delle scene e il suo espandersi per poi richiudersi in determinati momenti. Personaggi difficili e tema molto delicato. Da vedere sicuramente.
Steve, un po’ più e un po’ meno di Kevin. Come un Von Trier atto a fare del cuore d’oro una quadrilogia, con più cuore e più oro e meno verve ricattatoria, Dolan prende le misure a un cordone ombelicale impossibile a tagliarsi che unisce nella buona e nella cattiva sorte due disfunzioni ambulanti, e calcola l’area di un quadrato-inquadratura che recinta una vita a tutto tondo irta e scoscesa, determinata dall'impossibilità a un rientro nella norma. Dribbla quanto in altre mani sarebbe stato macchietta (e in ciò gli rende gran servizio un trio attoriale sublime) con un film che attanaglia 138'.
L’amore della e per la madre non ha nulla di romantico, ma è fatto di urla e sangue, di esasperazione e disperazione. Sconvolgente e appassionato ritratto di madre, e di figlio 15enne con disturbi psichici, e di una vicina fragile: tre solitudini unite da un filo di necessità esistenziale, facile da spezzarsi eppure potente. Lo schermo in formato 1:1 guida lo sguardo al centro - al cuore, si direbbe – dell’immagine, iperrealistica e istantanea come una polaroid, in una storia che non ha panorami ma solo esseri di immensa dolente umanità.
Il cinema di Dolan arriva in profondità e in questo caso scava nelle viscere della disabilità. Un ragazzo affetto da disturbo oppositivo provocatorio (DOP) dopo essere stato cacciato da una struttura rieducativa, viene preso in carico da una madre che ha una vita sregolata. Chi conosce l'argomento sa che si tratta di una storia vera e plausibile fatta di lotte, lacrime e sangue. Tutto è reso al meglio compresa la scelta di restringere lo schermo per tutto il film accrescendo la sensazione di oppressione vissuta dai protagonisti. Bellissimo.
MEMORABILE: Nell'illusione di un futuro radioso lo schermo si allarga e anche noi possiamo finalmente respirare a pieni polmoni... ma solo per un attimo.
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Da rimarcare che il regista Dolan, oltre a essere un classe 1989, si è occupato per questo film anche di sceneggiatura, montaggio, scelta delle musiche e costumi.
Direi che ciò ha fatto felici sia i produttori che gli spettatori.