Film documentary pluripremiato nel mondo che ci fa capire come possano esistere genocidi passati completamente sotto silenzio. Non siamo in Jugoslavia ma in Indonesia e il taglio originale dell'opera è limitarsi a intervistare gli autori dello sterminio di migliaia di comunisti che si vantano delle loro azioni, mescolando il tutto con una sottotrama di tipo grottesco. Film lunghetto (più di 2 ore) ma in grado di colpire nel segno e di suscitare più di una riflessione visto il ruolo che questa gente ricopre oggi senza che nessuno dica bau.
Indigna fino al nervosismo, siamo oltre i limiti del sostenibile; due ore sono troppe, 160’ improponibili. Viaggio senza ritorno nei meandri più profondi dell’assurdità umana, dove l’atto di uccidere è giustificato da mentalità estremiste e mitomani che non trovano spiegazioni se non nell’orgoglio cieco di individui mossi da ideali folli e sadici. Le ricostruzioni sceniche riproducono l’orrore così che la finzione disseppellisca la realtà - immane, penosa, catastrofica - dalla profonda voragine della menzogna. Etico, cosciente, monumentale.
MEMORABILE: Congo che piange esprimendo pentimento e una specie di comprensione per le vittime; E Joshua: “Ma te sai di fingere, loro sapevano di dover morire".
Uccidere come retorica teatrale, mimesi di un genocidio a opera degli stessi carnefici divertiti di recitar se stessi e di creare, ripercorrendo tutti i generi, uno star-system metastorico supportato da un governo che identifica nel mass-murdering l'onore, la grandezza e la libertà di una nazione e che giustifica ed esalta le virtù bonificatrici dello sterminio ripercorrendo certi 2+2 non dissimili da quelli che costellano il Mein kampf. Metapolitica e metanarrazione distillano un'imbevibile cicuta documentaristica, ma un loop di tre ore di un orrore di cui si è preso subito atto è smodato.
L'idea di base è geniale nel suo capovolgere i parametri del mockumentary e nel portare all'estremo (specie nell'inaspettata presa di coscienza finale) l'idea di cinema diretto, ma se l'amarissima ironia colpisce quasi sempre nel segno, il puntare sull'accumulo funziona meno, con le reiteratissime recite da massacro che col passare dei minuti creano sempre più assuefazione anestetizzando l'interesse. Eppure il film funziona e colpisce, sbattendo in faccia l'orrore allo spettatore in modo originale e intelligente. Da vedere.
Inizia con belle quanto insolite immagini da musical per proseguire poi come un documentario con i protagonisti stessi di quello che successe in Indonesia nel 1965, dopo che i militari presero il potere. Si parla di uno sterminio di centinaia di migliaia di comunisti o presunti tali che i "gangster", che danno alla parola il significato di uomini liberi, perpetrarono, assieme a organizzazioni paramilitari, in quel periodo. Arriva a essere grottesco nelle ricostruzioni dei modi di uccidere, dove si coinvolgono bambini che rimangono scioccati.
Docufiction scomoda e controversa che ripercorre i primi sanguinari anni del regime indonesiano di Suharto catturando le memorie della stessa manovalanza responsabile dei tremendi eccidi di stato. Una scaltra e impietosa seduta psicodrammatica che sonda a loro insaputa i diretti attuatori delle stragi, dalle cui millanterie spavalde e vanaglorie omicidiarie arrivano pelo pelo ad emergere giustificazioni, infimi pilatismi e nauseate resipiscenze. L'eccessiva durata però amplifica quel cinico oggettivismo occidentale che piega la buona fede degli interpreti a un'idea di morale che assoluta non è.
MEMORABILE: Le sgargiantissime coreografie trash delle danzatrici accanto alla pisciforme costruzione; i significativi malori psico-fisici del boia/gangster Anwar Congo.
Uno straziante documentario, che rappresenta una strage, spesso sorvolata dalle conoscenze occidentali, in cui hanno perso la vita milioni di persone perché "comuniste". Molto interessato il format da "dietro le quinte", stratagemma per mostrare a grandi linee i metodi utilizzati dai gangster aguzzini. Oltre a ciò il film offre poco; anche dal lato emotivo rimane abbastanza distaccato e il percorso catartico dei personaggi è poco credibile. Comunque molto belle le scene accanto alla "casa carpa".
Uccidere, poi sopravvivere a se stessi, alla propria coscienza. Uccidere, ed evocare ideologie, costruire mitopoiesi, veleggiare sul negazionismo etico. A lungo osserviamo i volti dei carnefici che reinterpretano il massacro, prima esecutori, poi vittime; a lungo restiamo attoniti, perplessi, in attesa delle conseguenze. Infine, emergono: devastanti, impietose, annichiliscono l'indignazione, ci scoprono incapaci a sostenerle. Oppenheimer indugia, reitera, ma lavora in profondità, nella percezione del pubblico, nell'interiorità dei protagonisti, rivela l'umanità che l'atto di uccidere annienta.
Un film che, se voleva essere di denuncia, riesce solo a disgustare ed è fine a se stesso. Perché ascoltare le ragioni e i racconti dettagliati degli esecutori di omicidi di massa, vedere come mettono in scena ciò che hanno perpetrato ai danni dei propri simili è cosa che nulla aggiunge alla conoscenza che si può avere leggendo libri sull'argomento. Qui vincono la rozzezza, la bassezza umana più profonda, i personaggi disturbanti con le loro voci sgradevoli come le azioni che hanno commesso. Il senso di tutto sta nella vomitata finale.
Il modo in cui i personaggi vengono presentati lascia esterrefatti: nonostante siano dei demoni in terra, vivono la loro vita come membri onorari di divisioni paramilitari. L'atto di uccidere riesce a mostrare il male nella sua banalità: il piccolo uomo, gangster, che diventa importante come killer assoldato per eliminare i comunisti. Qui il concetto di "vedere per non dimenticare" viene invertito: i protagonisti pensano di filmare per rimanere nella storia. Un documentario che fa male.
Indonesia, 1965: in appena un anno il regime militare stermina un milione di comunisti (veri o presunti). Questo documentario non tende tanto a ricostruire quelle vicende ma intervista gli spietati ideatori ed esecutori di quella carneficina che vivono ancora oggi liberi, rispettati ed in ricchezza ma non tutti del tutto privi di rimorsi. E così si vedono passare sullo schermo loschi figuri che "mettono in scena" i loro omicidi e lo fanno con grande naturalezza e divertimento. Un documento unico ed agghiacciante che cerca di esplorare il Male nelle sue pieghe più intime.
Contradditorio e perversamente polimorfo prodotto cinematografico, la cui idea di partenza è quanto di più formidabilmente azzardato sia stato girato su pellicola da decenni a questa parte. Il potenziale polisemico della "fiction-docu" di Oppenheimer, con la sua carica metastorica, metaletteraria, metacinematografica, ne fa un unicum d'innegabile impatto cerebrale. L'egida di Morris e Herzog poi consacra l'eticità di un'operazione di intrinseca ambiguità. Unico peccato capitale, la strascicata lunghezza, antipaticamente bigger than life. Impressiona Anwars Congo.
MEMORABILE: Anwars Congo che col nipotino si guarda in tv mentre "impersona" una delle vittime delle sue torture.
Agghiacciante: lascia senza parole e nello stesso tempo mette in imbarazzo quando, nostro malgrado, si ritroviamo a sorridere per l'improntitudine, la mancanza di gusto, lo squallore infinito di questi assassini impuniti che rievocano i loro crimini mettendoli in scena ed impersonando nello stesso tempo loro stessi e le vittime, in una sorta di cine-terapia di gruppo che, almeno in un caso, sembra ottenere l'effetto di far penetrare un raggio di consapevolezza in una coscienza nera come la pece. Opera unica, crudele fino al sadismo, in cui non stupisce rinvenire lo zampino di Herzog.
MEMORABILE: La figura, ridicola ed inquietante, di Herman Koto, vestito da donna in rosa shocking; l'ultima mezz'ora, a tratti insostenibile
La coscienza imponeva di uccidere e loro uccidevano. "Loro" erano e sono gangster prezzolati, paramilitari in cerca di gloria, mercenari al soldo di Suharto lungo le cui mani scorre il sangue di milioni di oppositori politici, veri o presunti. Ricostruire sevizie e uccisioni per l'occhio della cinepresa è motivo di vanto e orgoglio, da esibire al paese intero: l'ontologica, ricorsiva banalità del male. Il rimorso, per alcuni, è faccenda di contrappasso: timore della morte, del karma negativo. Nient'altro. Troppi 160', ma che gancio destro.
MEMORABILE: La scena dell'uccisione collettiva di donne e bambini; Anwar Congo da aguzzino a vittima; Il grottesco Hermann Koto.
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"Il film è stato distribuito in Italia da I Wonder Pictures in collaborazione con il Biografilm Festival nella versione da 115' con il titolo L'atto di uccidere, e nella versione da 159' con il titolo The Act of Killing - Director's cut."
Lo aggiungerei nelle note (le due versioni hanno titolo italiano diverso).