Un ritorno alle origini del nero "padano" avatiano (ma anche barilliano, penso a
Pensione Paura) in quello che è un film magari imperfetto, ma dalla grande forza suggestiva (complici le bellissime location boschive della provincia di Parma) e dalla svolta femmineo/sanguinaria.
Se i bruttissimi titoli di testa stile fiction televisiva facevano presagire il peggio e Luca Magri attore in un film di regime "blasettiano" non si può vedere (così come la coppietta che si apparta nel casolare per fare all'amore, i bombardamenti, l'uomo forzuto che manco Zampanò), l'opera del talentuoso Campanini comincia a farsi interessante nella prima parte della fuga tra fiumi, boschi, bivacchi, dove i tre personaggi (soprattutto Barilli e Magri) si sputano addosso merda l'un con l'altro per quasi tutto il film, puntandosi spesso le pistole in faccia (un intro paratarantiniano mutuato dalle
Iene)
L'immensità attoriale di Barilli fa guadagnare punti, cinico e disilluso ex galeotto parolacciaio, all'occorrenza spietato e senza scrupolo alcuno (l'uccisione a freddo dei due cacciatori lungo l'argine del fiume-tra cui uno impersonato da Campanini stesso, quello che ha visto
La locandiera, con la Ferida, quattro volte-
ionondimenticomaiunafaccia) a cui manca solo di bestemmiare, tratteggiando il suo Ugo con trasporto e un impronta quasi neoralistica.
E cammina e cammina ecco il casolare che accoglierà i quattro fuggiaschi, che nasconde un male ben peggiore di loro.
E quì il nero padano campaniniano decolla , trasformandosi in una via di mezzo tra
Onibaba e
Il delitto del diavolo, con la famiglia matriarcale di pazze furiose e assassine , dai sapori nerissimi avatiani (la zia inferma), dalle visceralità "cannibaliche" di predatrici dal vago sapore stregonesco
Tra le "voglie" di Agnese con piedino sotto il tavolo, le foto dei viandanti nel cassetto del tavolo da cucina, denti spaccati sulla falsariga dell'
Ultima casa a sinistra, incubi zombeschi premonitori (il soldato tedesco), spizzichi di torture porn (sul tavolaccio con tenaglie che manco
Flavia la monaca musulmana), il povero palermitano inforcato imitando
Hostel, sputi di disprezzo, la terribile fucilata nel fienile, la tagliola, le formiche che brulicano sulle foglie, vestita con la più bella vestale della nonna in odor di necrofilia, il delirio, la follia femminea, le tre parche che si avventano come mantidi sul povero maschio sacrificale, la chiusa beffarda e inaspettata.
Come se
La fine della notte sfociasse nelle derive e negli antri infernali avatiani di case dalle finestre che ridono.
Il basso budget non tradisce la forza espressiva (notevole l'omaggio alla
Noia nel falso sogno ad occhi aperti di Attilio mentre amoreggia con la sua fidanzata prostituta), e attraversando il noir/gangsteristico , per poi lambire il survivor boormaniano, si arena nei gangli di un parahorror cupissimo e terrifico, con le quattro contadine che disturbano e mettono i brividi più di qualsiasi altro babau, capaci di atti di feroce sadismo oltre ogni aspettativa (di cui, oltre che la sete di sangue, fa capolino una perfida avidità)
Impreziosito da uno score halloweeniano nella colonna sonora di Lelio Padovani (buona anche l'intuizione di infilarci dentro pezzi d'epoca come
Addio sogni di gloria,
Gastone,
La Paloma,
Vesti la giubba) e dai colori cupi (soprattutto che avvolgono il casolare delle quattro streghe) di Raoul Torresi (che appare anche nei flash come soldato morto vivente nell'incubo di Attilio), Campanini vince la sfida, donando un piccolo gioiellino necroforo di grande fascino malevolo (il vento che si alza improvviso, come presagio di morte, intorno al casolare degli orrori) pregno di quell'italianità oscura e ferina che ha fatto monumentali le opere di Avati o di Ferroni.
Nota di merito per tutte e quattro le brave protagoniste (dalla sensuale e letale Agnese, alla zia paralitica, alla taciturna Gigia e alla degenerata e perversa Anita)
Per me un piccolo cult nostrano da custodire gelosamente
Io in galera non ci torno, hai capito...fighetto!
Collaborazionista sarai tu