Gelida, iperrealistica e scarna diversa rappresentazione del "possession movie".
Schmid si muove tra
Diario di una schizofrenica a
Family life, intingendo il suo raggelante (e intimista) dramma in un atmosfera disadorna e squallida che lo apparenta a
Christiane F. (là la droga, quì una molto probabile malattia mentale, ma le due ragazze protagoniste si portano dietro un fardello che mina la loro quotidianità: gli amici, la discoteca, il disturbante fanatismo religioso di una-Santa Caterina-non è poi tanto dissimile dalla continua ricerca del "buco" dell'altra sua connazionale, fino a cadere nel baratro), con una ricostruzione degli anni 70 pressochè credibilissima e che rinuncia all'OST originale per pezzi musicali d'epoca, che ne aumentano il disagio e ne amplificano il dramma (la canzone sui titoli di coda, poco dopo che Michaela pare vada incontro al suo tremendo destino con impressionante serenità, convinta di una santificazione dettata dal suo cieco fanatismo, mette i brividi).
Loach, von Trier, i Dardenne, Bruno Dumont, Catherine Breillat (o come scrive la recensione di
Film tv dell'epoca "uno Scorsese che però ha visto meno film") i numi tutelari del giovane regista tedesco, che racconta di disfunzioni familiari (la madre di Michaela è un mostro di insensibilità con una mentalità ferma al Medio Evo-la sequenza dei vestiti "da sgualdrina" gettati nella spazzatura, proprio la sera della vigilia di Natale-che procurerà a Michaela una crisi in camera sua-è dolorosissima), della paura di non essere accettati (Michaela è comunque una ragazza socievole nonostante tutto, che riesce a farsi un'amica-Hannah- e pure un ragazzo-Stefan-che le staranno accanto fino all'ultimo, anche quando Michaela arriverà al punto di non ritorno. A questo punto interessante la sottolineatura di Rudy Salvagnini nella sua scheda al film nel nuovo dizionario dei film horror, quando evidenzia la perplessità di Stefan-che rappresenta le nuove generazioni-assistendo all'esorcismo casalingo retrogrado ai danni di Michaela da parte dei due sacerdoti e dei genitori, che quasi ti vien voglia di chiamare la polizia), di una ragazza timorata da Dio oltre ogni comprensione, come nella parentesi del pellegrinaggio in Italia e il rosario donatole dalla madre.
Ma il diavolo (poco probabilmente) fa le pentole e non i coperchi, e se Michaela non riesce (passando notti insonni e pure l'ultimo dell'anno) a redarre una relazione smontando nervosamente la macchina da scrivere e prendendosela con il crocifisso appeso alla parete, una volta che la schizofrenia, scambiata per possessione demoniaca, prende il sopravvento, ecco che la ragazza appare come in stato vegetativo, poi si contorce, grida, ride, arrivando a atti di "ribellione" verso quella stessa famiglia che l'ha indottrinata ad una religiosità eccessiva e soffocante (la minestra sputata in faccia alla madre mentre la imbocca, le boccacce di scherno mentre i genitori pregano per lei, il rompere gli oggetti in cucina disprezzando la madre), fino a quella chiusa di innaturale rassegnazione che mette non poco a disagio.
Schmid, poi, abilmente, al posto di eccessivi contorcimenti fisici o grida disumane che sfociano nei meccanismi horror (vedere la "collega" americana Emily Rose di tre anni prima) preferisce sottolineare il disagio mentale di Michaela in sequenze incisive e non poco "fastidiose" e parecchio inquietanti (una per tutte: quando Michaela balla, in discoteca, tutta scordinata e come in trance, sotto gli occhi esterefatti di Stefan o quando i "demoni" interiori le impediscono di avvicinarsi o toccare immagini sacre).
Curiosamente, l'altro Trier (il Gioacchino), nel suo ben poco riuscito
Thelma, ne prenderà in prestito stilemi e situazioni pressochè quasi identiche (la ragazza impossibilitata ad essere normale che lascia il paesello bucolico e asfissiante-come la famiglia-per andare a studiare all'università, l'amicizia femminile, gli esami medici-l'elettroencefalogramma-, le crisi "paranormali") in un contesto prettamente nordico e cinereo.
Malattia movie con riverberi esorcistici, ma che se ne distacca per uno stile freddo e quasi documentaristico (il dogma vontreieriano insegna) e di un'aderenza alla realtà quasi lancinante e che trova nella straordinaria bravura di Sandra Huller una fisicità e un aspetto psicologico che lascia davvero il segno.
Il diavolo (im)probabilmente...