Little deaths - Film (2011)

I "chi la fa, l'aspetti" di Zio Tibia rivisitati nel 2011 da tre registi britannici, ultracinici per definizione. Sesso e Morte, escrezioni, degrado urbano, colori freddissimi e nessuno spiraglio di luce. Il primo episodio di Sean Hogan (Lie Still) è il più statunitense dei tre, classico e macchiettistico; il secondo di Andrew Parkinson (I, Zombie) affastella buone idee ma non quaglia nel finale; il terzo, di Simon Rumley (regista dell'ottimo Red White & blue) è malinconicamente spietato, come nel suo stile.

Austera trilogia del cimiteros ove il thanatos è in agguathos: orgasmo e morte sono sinusoidali, se non monomi equivalenti, e non l'avessimo capita con Buttgereit qua ci si mettono in tre a elargirci ripetizioni; Hogan promette il K2 e lascia manciate di sabbia, per poi defilarsi con un detour da mani sul pacco. Parkinson delira a tutta propulsione e pare esserci rimasto sotto di brutto con Necromentia. Rumley aggiorna con elevati tassi d'interesse privati canili di ferreriano memento. A lui il merito di elevare oltre la striminzita sufficienza un film il cui fascino è superato dal suo squilibrio.

Perversioni sessuali in salsa horror e al centro la coppia con le sue problematicità, qui portate all'esasperazione. Dei tre episodi l'ultimo pare il più riuscito, tanto da poter essere scambiato per un corto a tema drammatico. La qualità stilistica e il livello di recitazione sono piuttosto qualificati, eppure il risultato finale lascia insoddisfatti per via di una tendenza globale allo schematismo contenutistico. Atmosfera fredda, livida, un po' troppo...

Primo episodio: banale, scontato, del tutto prevedibile e convenzionale. Secondo episodio: originale ma pasticciato; grottesco e orripilante, ma sostanzialmente inefficace. Terzo episodio: vale tutto il film; Rumley firma un fosco e morboso ritratto di coppia, senza reticenze, e mostra la feroce e algida vendetta di un uomo sottomesso e umiliato a cui viene tirata la corda oltre il limite di sopportazione. Il pallinaggio risulta dalla media fra i tre episodi.

Film ad episodi livido, lugubre, senza speranza. I primi due segmenti latitano: il primo è banale e senza sussulti, il secondo mette troppa carne al fuoco finendo con il generare confusione, sia visiva che di concetto. A far evitare al tutto un unico pallino, arriva il terzo episodio: cattivissimo, estremo, forse con una regia non ispiratissima ma almeno coinvolgente. Resta comunque il fatto che questa programmatica commistione tra eros e thanathos, più che spiazzante, risulta alla fine della fiera forzata e talvolta persino commerciale.

Interessante esempio di horror ad episodi incentrato sul disagio giovanile e sugli umori deviati dell'attuale gioventù: droga, sesso e altre pulsioni apparentemente banali sono qui specchio di metàfore e significati profondi. Il film comincia con una coppia di "vampiri" che gradisce sangue di senzatetto; prosegue con la trattazione di un surrogato di droga potenziata da un "elemento sessuale" procacciato in cavie umane forzate all'orgasmo; e finisce alla grande con un episodio altamente disturbante su una coppia che intraprende il gioco (pericoloso) dell'eccesso e dell'inversione dei ruoli.

Buon horror a episodi incentrati sul connubio sesso/morte, non privo di spunti di riflessione, anche di tipo sociologico. Notevoli le analogie con Salò: sesso e liquami corporali usati come arma di tortura e umiliazione, metafora del potente che si diverte a spese del popolo giustificandosi con la fede e il lavoro, riferimenti al nazismo, il corpo umano annichilito e ridotto a oggetto o alla stregua di animale, il tutto accompagnato da musica allegra in contrasto con la crudeltà delle immagini. Un tortureporn di buon livello, vivamente consigliato.

Discontinua come più o meno tutte le antologie, ma nel complesso godibile e degna del bel titolo che porta. Si parte maluccio con "House and Home", banale dalle premesse sino al telefonato ribaltone sovrannaturale, classico cliché da portmanteau. Va un po' meglio con "Mutan Tool", marcescente escrescenza body-horror che ha la grande colpa di mettere un po' troppa carne al fuoco, sfociando nel confusionario. Ma è con "Bitch" che il timbro autoriale si fa vibrante: Rumley dirige un insalubre racconto di amore corrotto e vendetta passionale, con un montaggio finale di poetica brutalità.