Fuori dalla Hammer quel che rimane è la pauraFosco e torbido melodramma che si illumina di riverberi malati e sordidi, con un Peter Finch in preda all'alienazione, alla solitudine e alla follia (che degenera, di botto, nell'imprevedibile finale violento, dove imbraccia il fucile).
E la solitudine e le squallide esistenze umane (dalla ragazzina scappata di casa, incinta, sboccata, menefreghista, indisponente, mentalmente instabile, alla vicina di casa vogliosa, appelata da Finch come "cagna in calore", fino al vecchio ambulante in riva al mare, che si aggira come un fantasma, e che sà riconoscere l'acre odore della carne umana che brucia per via del suo internamento ad Auschwitz , che sarà determinante per l'agghiacciante segreto che custodisce Finch) sono il perno focale di questo sgradevole melò sputato dall'inferno.
Si inizia subito con una Shelley Winters volgarissima e sfatta (che sembra ancora stia sui set di Curtis Harrington), che sputa addosso a Finch (il marito succube) rabbia e alcool, rinfacciandole pure di essere impotente, si prosegue con Finch che vive un esistenza grigia e solitaria fino all'incontro con la diciasettenne gravida, che porterà non poco scompiglio alla sua vita monotona (proverbiale è un sinistro stradale e la coda che ne consegue).
E se la minorenne è più rozza e scurrile (nonchè insopportabile) di un camionista di Liverpool, l'esistenza di Finch comincia ad andare in pezzi (assenze sul lavoro e facendo di tutto per coprire, alla vista dei curiosi vicini ficcanaso, la presenza della ragazza in casa), ma una volta che il bebè nasce (la ragazza vorrebbe "scolare via" l'ingombrante nascituro) cominciano i guai.
Pervaso da un linguaggio cinico e crudo (almeno per l'apoca), questo nerissimo viaggio nel delirio e nella dissociazione comincia ad assumere i tratti di un horror (cosa davvero brucia, nel suo fornello situato nella serra, Finch novello Landrù? La sanità mentale di Finch che vacilla e confonde la scomparsa della ragazzina con quella della moglie avvenuta anni fa, il finale che sbrocca nella insania omicida totale), dove Finch si destreggia tra rompiscatole, un cadaverino di cui sbarazzarsi, e la polizia che bussa alla porta.
Grande regia di Alastair Reid, che parte teatraleggiando e finisce in zona
Psycho coi nervi a pezzi, anticipando l'occhio sbarrato di Marilyn Burns di
Non aprite quella porta con quello della Hayden appena sveglia e dando a Atom Egoyan l'imput per il bellissimo
Il viaggio di Felicia.
Il castello di sabbia che nasconde il terribile segreto di Finch, la ragazzina molesta che le rovina i vinili e fa casino in casa prima di partorire, una vicina impicciona zitella e con le smanie, un datore di lavoro che le stà addosso, una moglie scomparsa nel nulla, un vecchio ex deportato che tutto vede e tutto sa, un poliziotto ficcanaso, un bebè che continua ininterrottamente a piangere, quel fumo nero e quell'odore dolciastro che esce dal caminetto e la mente che và, comprensibilmente, in tilt.
Da antologia Finch, in evidente imbarazzo, che si reca in un negozio di articoli per neonato.
La stesse miserie umane che ritrarrà Bolognini per il suo
Gran bollito, in uno dei film british più sordidi (più che per il malsano contesto che nemmeno per le immagini) degli anni 70.
Piccola gemma nera da recuperare che nulla ha da invidiare agli psychodrammi coevi americani.