Capolavoro incancellabile di Paul Leni, un film meraviglioso tratto da un romanzo di Hugo ma cambiato nel finale da un regista culto del cinema espressionista. Attori strepitosi (su tutti il personaggio principale Gwynplaine, magistralmente interpretato da un attore con la A maiuscola quale Conrad Veidt, il Cesare dell'inossidabile Il gabinetto del Dottor Caligari di Wiene). Coprotagoniste una stupenda Mary Philbin e una ammaliante Olga Baclanova (ma quanto erano belle le attrici del muto...). Una storia bellissima e un cinema che non c'è più..
MEMORABILE: Lo sguardo, asfissiante per tutto il film di Gwynplaine.
Dissaventure di anime in pena nel XVII secolo, in una Inghilterra cinica e selvaggia, dominata dal profitto e dall'ingiustizia -come sempre- fortificata da interessi ereditari ed economici. Paul Leni cura marginalmente la storia, per soffermarsi invece sulle metàfore e sulle "espressioni" dei protagonisti, sorta di freaks ante-litteram: pure la normalità è vista in chiave alternativa e il significante dei "contrari" viene esplicato nel volto malinconico del protagonista, obbligato a sorridere anche quando piange e amato da una bellezza penalizzata da cecità. Ottimi i fondali di scena e i costumi.
La grande scuola espressionista sposa il grande romanzo (Hugo) e il risultato è un film potente e imponente, con una narrazione trascinante e una sensibilità visiva sopraffina che regala momenti di notevole intensità. L’uomo con la smorfia scolpita sul volto è l’ennesimo mostro dall’animo sensibile (che Veidt rende benissimo, caricandolo di un dolore esistenziale dagli echi espressionistici), qui visivamente ancor più inquietante del solito per il sorriso involontario, mentre il suo amore per la piccola cieca prelude ad accenti chapliniani.
Siamo dinanzi ad un vero e proprio feilleuton in celluliode (tratto dall'omonimo romanzo di Hugo). Così non c'è da meravigliarsi se la storia le prova tutte per emozionare lo spettatore, parlandogli più alla pancia che alla testa. Ma la cosa è accettabile non solo per i tempi in cui il film fu girato ma anche perché ci si mantiene comunque su livelli accettabili. La storia dell'uomo che ride non è solipsistica ma si fa dramma universale. La maschera di Lon Chaney col suo ghigno dolente, beffardo e felice allo stesso tempo è indimenticabile: di quelle che ti entrano dentro e non ne escono più.
Film ben diretto e interpretato. Il punto debole sta nella sceneggiatura, che tradisce lo spirito del romanzo di Hugo. A parte il lieto fine hollywoodiano, è grave la banalizzazione della figura di Gwynplaine, che nel romanzo suscitava lo sdegno dei pari per il discorso con cui metteva sotto accusa la nobiltà parassitaria. Nel film tutto si riduce a mera ribellione personale e la rabbia dei pari è rivolta al fatto che pensano che egli stia ridendo della regina. Non sarebbe stato difficile sviluppare la sceneggiatura in maniera piú fedele.
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