Il bruto e la bella - Film (1952)

Ritratto polifonico di un produttore cinematografico cinico e bugiardo, attraverso i racconti di chi ebbe a che fare con lui nel passato: un regista suo compagno all'inizio della carriera, uno sceneggiatore di cui indusse la moglie al tradimento, un'attrice che rese famosa ma di cui respinse l'amore umiliandola. Bella parabola su splendori e miserie di Hollywood, con Douglas, bastardo ma irresistibile, circondato da un ottimo cast in cui spicca Grahame, la moglie fedigrafa, premiata con l'Oscar, come pure la splendida fotografia.

Simile a Quarto potere e Viale del tramonto nella sua struttura retrospettiva, è un’autoriflessione sul mondo del cinema hollywoodiano, che penetra, altera e sconvolge implacabile le vite private di chi per esso lavora: esemplificativo in tal senso il “bruto” Jonathan Shields di Douglas, abile, egocentrico e senza scrupoli sia come produttore di film che come manipolatore di persone. La sceneggiatura, non di rado prolissa e macchinosa, è riscattata dalle ottime interpretazioni e dalla solida direzione unitaria impressa da Minnelli.

Delle riflessioni metacinematografiche di Minnelli, la migliore. Partendo dallo script solido, pur se un po' ruffiano, di Schnee, il re del musical orchestra ci offre una barocca messinscena scenografica (suggestiva la fotografia di Surtees), corroborata da una magistrale direzione d'attori. Potente in tal senso l'interpretazione di Douglas, Giano bifronte in grado di cavar dagli altri solo il meglio che serve a se stesso (ma il finale ci dice non solo). Sempre originalmente brava la Grahame e languida il giusto Lana. Riferimenti a fatti e personaggi affatto casuali.

Un personaggio totemico, il gioco delle apparenze "in abisso", flashback in funzione psicoanalitica, punti di vista che stratificano complessità: nella costellazione definita da Quarto Potere, Viale del tramonto ed Eva contro Eva, la verità è un miraggio e il cinema luogo e mezzo di mistificazione per eccellenza. Minnelli ne ricava una sintesi superiore, circuitante nel sistema produttivo hollywoodiano, incarnata da un grandioso Kirk Douglas la cui interpretazione cannibalizza David O. Selznick, Val Newton e Howard Huges. È anche un'acuta riflessione sul ruolo della donna nell'industria dei sogni.

Il cinema che racconta sé stesso, con tutte le ambizioni, i progetti, gli odi, gli amori, i fallimenti; praticamente il comune bestiario di un qualsiasi ambiente lavorativo. Strutturato in prolissi flashback raccontati con frequenti incursioni di voci fuori campo (con grande gioia di chi non le ama), rolla via piatto, emozionante come il cronoprogramma di un cantiere edile. Multi premiato proprio perché è un’autocelebrante rivendicazione della propria umana normalità, sembra dire: “Sì, l’immoralità fa schifo, ma noi ci mangiamo”. Davvero intenso il b/n, contrastato e cavernoso.

Un produttore cerca di convincere un regista, un'attrice e uno sceneggiatore a lavorare ancora per lui. Trama a macrosegmenti in cui i flashback spiegano i vari rapporti interpersonali, con Minnelli che spiega i meccanismi di Hollywood e il cinismo che vi regna. Regia abile soprattutto nel creare i momenti di metacinema e per ricostruire le situazioni sui set. Douglas incarna bene il ruolo senza scrupoli morali pur mantenendo una faccia d'angelo. Il mondo del cinema rappresentato come maschilista non è una novità.