Infero satori di una famiglia borghese, ovattata da impeccabile asetticità e mille segnali e sintomi (una quasi impercettibile dissolvenza incrociata tra borghesia e hitlerjugend) della drastica purificazione che verrà. Ad Haneke l'incubo della facciata familistica non va punto giù, e quando si tratta di fare ferina tabula rasa delle sue stratificate patine, la freddezza di intenti è tutto, e si resta assiderati ma anche storditi da una felice ambiguità non sanabile. Capolavoro d'odio secco, che farà molto male ai vessilliferi dello status quo.
Haneke, con uno stile asettico, freddo, senza dissolvenze, nonché volutamente ripetitivo (pochi dialoghi ed una maniacale attenzione ai dettagli), racconta la storia di una famigliuola come tante che, improvvisamente, "rinsavisce", dapprima ergendosi tramite purificazione, precipitando poi inevitabilmente nel baratro della follia più nera. Il risultato è un film duro, estremo, maniacale, un prodotto di certo non per tutti i palati, ma che merita incontrovertibilmente la visione. Quel che mi sento di dire è che, comunque, non lo rivedrei mai...
Tanto lucidi nell'alienante routine borghese quotidiana, quanto nel pianificare la distruzione scientifica della propria casa e della propria vita: è in questa lucida follia (molto austriaca...) la chiave del notevole debutto di Haneke ispirato a una storia vera. La cosa più potente è la sintassi del film: microsequenze a camera fissa o quasi, con uno sguardo iperrealista che indugia sui dettagli (fondamentali tv e autolavaggio), scandite dallo schermo nero. Un modo di raccontare che amplifica e assolutizza la crudele meschinità delle vicende.
L'esordio del 46enne Haneke avviene all'insegna di una maturità (di tematiche e consapevolezza teorica) che non basta a nascondere (e anzi ulcera) un ingenuità cinematografica che collima con un immorale programmaticità. Eccoci così propinata senza filtro, nuda e cruda, questa tragica favola, il cui attonito racconto ci inorridisce, gettandoci spossati nel suo horror vacui. Haneke imparerà dal Settimo continente a temperare il suo nichilismo e a render più dialettico il rapporto col pubblico. Una provocazione che non insegna nulla ma atterrisce.
MEMORABILE: La distruzione della casa a colpi d'ascia e di martello Bosch (sorta di citazione dell'esplosivo finale di Zabriskie point); L'autolavaggio.
Cristallizzato nella glaciale routine asettica di una famiglia borghese, l’esordio di Haneke è un excursus morale di abbagliante freddezza e oscura cattiveria. Regia claustrofobica aggrappata al dettaglio, oscurando il più possibile i volti rimarcando la meccanicità di gesti e l'effimera forza dei sentimenti, per raccontare l'autodistruzione come liberazione catartica lontano da tutto e da tutti. Epifania del nichilismo più struggente e insostenibile, incontro al Settimo continente, alla morte, al Nulla. Picchia duro e fa malissimo.
E' un esordio ma non si direbbe. Haneke mostra, infatti, già una notevole maturità nell'uso del mezzo e nel dipanare una storia in maniera lucida e coerente, senza scendere a compromessi coi suoi personaggi e le loro azioni. La pellicola contiene tutte le caratteristiche del suo cinema: forma controllatissima e glaciale; coerenza (qualcuno direbbe crudeltà) nel portare avanti i suoi assunti, senza arretrare dinanzi a nulla; violenza psicologica di grande impatto (di quella visiva, al solito, ce n'è poca). Buono ma il regista austriaco saprà fare ben altro.
Ciò che spiazza dell’esordio di Haneke non è la drammaticità della storia, quanto lo stile da autopsia con cui è raccontata. La vita della famiglia protagonista della vicenda (pare che il regista si sia ispirato a una storia vera) è esaminata in ogni gesto e routine quotidiana, ciononostante il malessere rimane in profondità e il finale è ancora più spiazzante per quanto appare ingiustificato. Ma è così che va la vita... I detriti si accumulano un giorno dopo l’altro, impercettibilmente.
Al suo esordio, Haneke scava nel malessere quotidiano di una famiglia che freddamente decide il suo destino. La claustrofobia e la ripetitività esistenziale denotano già la cifra stilistica che il regista proporrà nella sua carriera, e il crescendo distruttivo non lascia indifferenti. L’ultima parte incolla letteralmente allo schermo fino a un finale che delude in quanto “costruito” e al limite del simbolico. La distinzione in tre parti serve fino a un certo punto.
MEMORABILE: La figlia che finge di non vedere; L’acquisto degli attrezzi; La libreria distrutta; Il disco rotto della Bertè; I soldi nel wc.
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Mi sono lasciato ingannare dal fatto che al cinema lo danno col titolo italiano. Così ho
pensato che fosse uscito magari in sordina. In
realtà ho controllato e non mi pare sia così.
Avrei potuto farlo prima. Scusate.